“Il personale della scuola merita un contratto vero, non l’elemosina su cui si è trovato l’accordo all’Aran una settimana fa: gli insegnanti hanno responsabilità da capogiro e anche il bidello non è un usciere, perché se accade qualcosa ad un alunno mentre è al bagno rischia di incorrere in una condanna penale. Invece gli insegnanti guadagnano come gli impiegati e gli Ata peggio di un metalmeccanico”. A sostenerlo è stato Stefano d’Errico, segretario nazionale Unicobas, nel corso del convegno ‘La Scuola nel cuore’, svolto il 16 febbraio nell’aula magna del liceo Classico “Terenzio Mamiani” di Roma, organizzato dall’Associazione Unicorno l’AltrascuolA in collaborazione con Unicobas.
Tutta colpa del decreto legislativo 29/1993
“Per ottenere un contratto degno di questo nome – ha detto il sindacalista di base – occorre un accordo specifico per la scuola e quindi svincolarsi dal pubblico impiego, anziché creare un compartone in ossequio alla Madia: il problema però nasce dal decreto legislativo 29 del 1993, che ha relegato all’angolo tutti quelli che ne fanno parte, Scuola compresa, eliminando per loro il ruolo a favore dell’incarico a tempo indeterminato, gli scatti d’anzianità biennali per lasciare spazio ai gradoni di 6-7 anni e dovendo pure dire addio agli aumenti superiori all’inflazione programmata”.
D’Errico ha quindi chiesto garanzie, in tal senso e sul fronte dell’inadeguata democrazia a livello di rappresentatività sindacale, ai politici presenti al convegno romano: Giorgio Cremaschi, ex Fiom e oggi candidato alle prossime elezioni politiche con Potere al Popolo, Claudia Pratelli, esponente di Liberi e Uguali, e Enza Blundo, senatrice del Movimento 5 Stelle.
Dopo 12 anni di blocco, aumenti inferiori al pubblico impiego: sempre più ultimi in Europa
Il sindacalista Unicobas ha poi tenuto a ribadire che “la scuola negli ultimi 12 anni di blocco stipendiale, non 10 come si ostinano a dire, ha perso qualcosa come 15mila euro netti. E adesso si vuole sanare tutto con 80 euro lordi al mese. Una cifra media, a regime, per docenti e Ata, inferiore ai soldi percepiti dal pubblico impiego. Senza dimenticare che si è dovuti partire con gli aumenti veri, dopo degli arretrati ignobili, con almeno due mesi di ritardo per coprire la differenza per coloro che percepiscono stipendi più piccoli, tra l’altro con nessuna garanzia dopo dicembre 2018”.
“Altro che valorizzazione del ruolo del docente e di chi lavora a scuola: la realtà è che siamo sempre più sotto l’inflazione, con la categoria degli insegnanti italiani sempre più invischiata nell’ultimo livello retributivo d’Europa. Ma se non ci si sgancia dal pubblico impiego, Ata compresi, quella maglia nera non ce lo leva nessuno”, ha concluso d’Errico.