Nell’Italia di oggi le ingiustizie sono un dato palese, evidente per chiunque. L’iniquità del sistema è visibile anche nelle condizioni in cui versa la Scuola.
A pagarne gli effetti sono soprattutto i docenti: ossia i laureati meno pagati della Penisola, nonché gli insegnanti peggio pagati del mondo occidentale. Basti pensare che un vicario del Dirigente Scolastico sta Scuola tutto il giorno, con responsabilità enormi, per € 100 (sì e no) al mese. Persino i dirigenti stessi sono sottopagati per le enormi responsabilità che gravano sulle loro spalle.
Il trattamento di fine rapporto (somma accantonata dagli stipendi in molti decenni di lavoro) viene pagato ai neopensionati statali rate e dopo due anni dal pensionamento. I diritti dei lavoratori statali, in sostanza, vengono in subordine rispetto alle regole di bilancio dettate dalla Commissione Europea, dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Centrale Europea. Eppure dovremmo trovarci in una democrazia; e la base della democrazia è la giustizia sociale.
Ma di questo impoverimento progressivo dell’economia e della democrazia del Bel Paese dobbiamo ritenere responsabile solo l’Unione Europea? Oppure il processo è imputabile anche a fattori endogeni?
C’è stato un tempo in cui il ceto politico e dirigenziale di questo Paese ha provato molta paura. Paura di perdere tutto. Timore che il popolo italiano stesse davvero diventando cosciente di sé e dei propri diritti. Terrore che si posassero le basi di quel cambiamento rivoluzionario (mai realizzato in Italia) che avrebbe permesso al nostro Paese di scrollarsi di dosso i residui dell’antico regime, dell’oscurantismo, del feudalesimo, ponendo fine allo strapotere di lobby, clero, dinastie, mafie.
Questo panico le classi egemoniche l’hanno saggiato tra gli anni ‘60 e i ‘70, quando le lotte politiche del movimento operaio, degli studenti e delle donne ottennero leggi più favorevoli ai diritti civili, al lavoro dipendente, allo studio, all’emancipazione femminile. Leggi, si badi bene, non rivoluzionarie, ma appena coerenti coi principi costituzionali, e nate con un quarto di secolo di ritardo.
Ebbene, dagli anni ‘70 a oggi non sembrano passati decenni, ma secoli. Il bel Paese è oggi — forse — più ricco, ma con disparità ed ingiustizie enormemente accresciute. Meno famiglie fanno parte del ceto medio, mentre è cresciuto enormemente il numero di persone scivolate nella povertà (spesso estrema). Ancor meno sono le famiglie rimaste nella già esigua fascia più benestante; la quale però è enormemente più ricca.
Non lo diciamo noi. Lo dicono le statistiche. Nel 2018 l’incidenza della povertà relativa tra le famiglie è salita al 15 per cento dall’11,3 per cento di dieci anni prima, arrivando coinvolgere oltre nove milioni di persone. I poveri assoluti passano dal 3,5 per cento del 2008 all’8 per cento delle famiglie nel 2018, cioè circa 5 milioni di persone. Il rischio di povertà, più elevato della media dell’Unione europea anche negli anni pre-crisi, ha raggiunto il valore massimo nel 2016, mantenendosi stabile nel biennio successivo su valori prossimi al 28 per cento delle famiglie. Il peggioramento ha riguardato, oltre al Centro-Sud, anche il Nord, e specialmente le famiglie con minori, monoreddito, operaie, di lavoratori in proprio o con persone in cerca di lavoro.
In questo quadro, risulta fortissimo il peso che le imposte indirette (come IVA e accise, identiche per ricchissimi e miserrimi) hanno avuto in questa redistribuzione elitaria del reddito. Si pensi che perfino il Governo Renzi (malgrado i giuramenti di novità rispetto ai Governi precedenti) non ha saputo fare di meglio che aumentare le già gravose ed inique accise (che si sommano all’IVA) sui carburanti. L’attuale Governo, malgrado le promesse, non le ha certo abolite. Ben sapendo che le tasse uguali per tutti (come pure le “flat tax”) affamano i poveri e fanno il solletico ai ricchi.
Eppure, all’articolo 53, la Costituzione ordina: «Tutti sono tenuti concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Ebbene: in Italia non è stata applicata mai — di fatto — una tassazione davvero progressiva, perché i più ricchi sono riusciti regolarmente ad evadere e ad esportare capitali all’estero. Il nostro è il Paese europeo con l’evasione fiscale più alta: € 3.156 pro capite, contro i 1.529 della Germania, i 1.739 della Francia, i 1.312 della Gran Bretagna, i 1.289 della Spagna. Per frode fiscale, ammontante circa 300 milioni (è bene ricordarlo), è stato condannato (in via definitiva al terzo grado di giudizio dalla Cassazione) persino un noto costruttore milanese, proprietario di più reti televisive private nazionali, iscritto alla Loggia massonica P2, con qualche conoscenza in odor di mafia, più volte Presidente del Consiglio dei Ministri e molto amico (nonché ispiratore) di altri “premier”.
Risultato di tutto ciò: un giovane italiano su tre non studia e non lavora, perché le opportunità che il Paese offre sono ormai limitatissime. Paese che, nel 1991, era la quarta potenza industriale del pianeta (ed è tuttora la settima). L’attuale declino (anche della Scuola) non è forse il frutto delle ingiustizie di cui sopra? Affronteremo questo tema in un prossimo articolo.
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