Riceviamo e pubblichiamo una attenta riflessione sugli stipendi dei docenti della scuola dell’infanzia e primaria: il lettore ha anche posto alcune domande al nostro direttore responsabile Alessandro Giuliani, il quale ha risposto in fondo al documento.
Gentile Direttore, mi rivolgo a Lei per avere una risposta ad una serie di quesiti che sono rimasti in me sospesi da anni e che, in questi mesi, hanno ripreso forza dopo tutti gli interventi e le problematiche riportate puntualmente dalla vostra testata on line. E’ stato appena firmato il nuovo contratto e conosciamo tutti la situazione riguardante gli stipendi degli insegnanti, decisamente bassi e non al passo con l’inflazione galoppante, oltre al caro vita lamentato, in quanto maggiore in alcune regioni, con tutte le problematiche connesse a colleghe/i costretti a fare la spola tra queste e le regioni in cui risiedono i familiari. Tra le proposte emerse per arginare quest’ultimo problema ricordo l’idea di differenziare una quota regionale, parametrandola al costo della vita. Questa proposta era stata subito attaccata, ritenuta inconcepibile e scartata in quanto (avevo letto in qualche articolo su altre testate) da ritenere addirittura anticostituzionale.
In realtà esistono già contratti che prevedono quote regionali parametrate al costo della vita: ad esempio mia moglie (con CCNL Dipendenti studi professionali che amministrano condomini o immobili) percepisce, risiedendo in Lombardia, una quota pari a circa 60/70€ mensili in più rispetto ad altre colleghe/i che svolgono le medesime mansioni in altre regioni. Dal momento che si tratta di un contratto nazionale (sottoscritto a livello sindacale), dubito che questo possa ledere dei diritti costituzionali. Ed ecco quindi la mia prima domanda: perché nella scuola una proposta simile è stata bollata da alcuni come anticostituzionale?
Se ben ricordo l’obiezione maggiormente diffusa alla proposta di cui sopra era stata la seguente: non sarebbe corretto fare differenze di remunerazione tra persone che svolgono il medesimo lavoro. Ad essere scrupolosi si può affermare invece che esistano già nella scuola delle differenze stipendiali tra docenti che svolgono lo stesso lavoro (cioè insegnare) e, ovviamente, non stiamo parlando dei “gradoni stipendiali” legati all’anzianità di servizio. Ci riferiamo invece alla situazione presente negli Istituti Comprensivi di tutta la Repubblica Italiana, laddove lavorano docenti di Scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado. A pari anzianità di servizio (0-8) nel 2022 un docente della Scuola dell’infanzia/primaria percepiva mensilmente circa 90 euro in meno del collega della Secondaria; man mano questa “forbice” si allargava e, a “fine carriera” (35 anni ed oltre), la differenza si aggirava intorno ai 140 euro.
Mi risulta che gli aumenti recenti non abbiano fatto altro che confermare questo status quo, ad importi ovviamente variati. Eppure questi docenti, alcuni oramai da più di vent’anni (gli IC sono apparsi per la prima volta nel 2000 e sono stati confermati, se ben ricordo, con il D.L. n.98 del 6 luglio 2011) fanno parte del medesimo Collegio unitario e condividono lo stesso PTOF, RAV e Piano di Miglioramento. Forse la differenza stipendiale, potrebbe obiettare l’uomo della strada (digiuno di normativa scolastica), risiederebbe in un orario di servizio maggiore alla scuola secondaria di primo grado rispetto alla Primaria e all’Infanzia. Come ben sappiamo tutti, invece, è l’esatto contrario: i docenti all’Infanzia svolgono infatti 25 ore settimanali, alla Primaria 24 e alla Secondaria 18.
Decaduta questa obiezione, sempre il nostro uomo della strada potrebbe motivare questa differenza ipotizzando che il lavoro alla Secondaria sia più pesante, rispetto a quello della Primaria ed Infanzia. Anche in questo caso la normativa scolastica/contrattuale vigente è disarmante: stando alla situazione attuale, oltre alle colleghe della scuola dell’Infanzia, dal 2022 anche lavorare come docenti nella scuola primaria viene riconosciuto come lavoro usurante. La scuola secondaria di primo grado è attualmente esclusa da questo beneficio, sebbene gli studi a disposizione confermino come l’usura psicofisica sia identica in tutti i livelli di insegnamento (e sappiamo poi tutti come non sia proprio così facile lavorare con alunni preadolescenti…).
Rimarrebbe a questo punto un’altra ipotesi, a motivare tali differenze nel trattamento economico: per accedere al ruolo di insegnanti sono forse previsti percorsi diversificati, maggiormente impegnativi per la scuola secondaria. In realtà se fino al 2002 bastava il semplice diploma per accedere ai concorsi per la scuola dell’infanzia e la scuola primaria (a differenza della Secondaria di primo grado), ora, proprio a partire da quella data, è previsto un percorso di laurea per tutti. E gli aspiranti docenti di Infanzia/Primaria svolgono ben 400 ore di tirocinio nelle scuole durante il loro percorso di studi in Università.
Forse, escluse le precedenti motivazioni, le differenze potrebbero trovarsi da ultimo all’interno della cosiddetta “funzione docente”, non quantificabile ma diversamente vissuta nei tre ordini di scuola. Per completezza non ci si deve in effetti dimenticare che i docenti della scuola primaria e dell’infanzia non vengono impegnati, a differenza della Secondaria di primo grado, nelle attività riguardanti l’esame di Stato. Si tratta di una dimensione della funzione docente non di poco conto ma che ha avuto, a mio avviso, una sorta di “contro-bilanciamento” con l’O.M. 172 del 4 dicembre 2020 che ha introdotto, esclusivamente nella scuola primaria, la valutazione descrittiva al posto di quella numerica. Si tratta di un’innovazione che non mi sento affatto di mettere in dubbio, ma che ha un suo “costo” in termini di risorse orarie da dedicare: un conto è infatti scrivere un numero (e “flaggare” on line una casella del registro elettronico) ed un conto è scrivere un giudizio descrittivo personalizzato, per poi riportarlo (sempre in chiave discorsiva, dopo aver “flaggato” i vari descrittori…) sempre sul registro on line.
Traendo le somme e, stando ai fatti sopra riportati, si potrebbe a questo punto concludere in questo modo: il mio datore di lavoro (MIM) riconosce sì che il mio lavoro di docente nella scuola infanzia/primaria è usurante e, preso atto di questo…mi fa lavorare per più ore alla settimana e mi paga pure di meno! Questa affermazione potrebbe apparire provocatoria, ma i fatti, in concreto e allo stato attuale della normativa, sono questi.
Ecco, gentile Direttore, la mia seconda domanda: qual è il senso attuale di questa differenziazione stipendiale all’interno del medesimo Istituto Comprensivo? Forse (mi perdoni l’ironia) che lo Stato sia in attesa del pensionamento dell’ultimo diplomato magistrale per poter poi intervenire?
Un tentativo di unificazione della funzione docente era stata effettuato nel 2012. Mi ricordo perfettamente che, all’epoca, ero sceso in piazza a protestare con le colleghe e i colleghi della Secondaria perché la cosiddetta “unificazione” sarebbe dovuta avvenire esclusivamente uniformando l’orario di servizio di questi docenti con la Primaria, portandolo da 18 a 24 ore settimanali. Al di là del fatto che questo atto legislativo avrebbe comportato un notevole taglio di cattedre (mantenendo inalterati gli stipendi), non condividevo, allora ma anche oggi, l’idea che nel nuovo millennio le condizioni lavorative dovessero peggiorare (con un aumento dell’orario) anziché migliorare. Di nuovo una domanda per Lei, gentile Direttore: non è giunto forse il momento di una revisione “generale” della funzione docente, riconoscendo anche solo le ore svolte in più all’Infanzia e alla Primaria ma anche il rischio di una certa usura psicofisica alle colleghe e ai colleghi della Secondaria?
Ho come la strana impressione che il problema sia di tipo culturale: che cioè che ci sia fermati ad un’idea di scuola dell’infanzia come sola custodia (del resto non fa parte del percorso obbligatorio) e di una scuola primaria molto basic e senza pretese, per le quali non sarebbero necessarie chissà quali professionalità. Per trovare un siffatto modo di considerare questi due ordini di scuola bisognerebbe fare un salto indietro nel tempo di parecchi decenni (forse un secolo, se non più), mentre la ricerca, la normativa e le sensibilità sono del tutto cambiate: addirittura con il Dlgs 65/2017 si è introdotto il concetto di “Sistema integrato 0-6”, riconoscendo l’importanza di un presidio educativo strutturato di questa fascia d’età.
Forse, a ben vedere, la scuola negli anni è cambiata ma non è mutato un certo modo di pensare e di considerare la scuola stessa, in particolare l’Infanzia e la Primaria. Sbaglio, Direttore?
Grazie infinite per ogni sua risposta
Cordialità
Giacomo Rota
LA RISPOSTA DEL DIRETTORE
Gentile lettore, il tema da lei sollevato ritengo sia pertinente e attuale: la differenza stipendiale tra i docenti del primo ciclo e quelli della secondaria non è infatti più giustificabile come vent’anni fa. Prima di tutto perché i titoli di studio e la formazione sono analoghi (fatta eccezione per una parte minoritaria di docenti diplomate). Inoltre, perché, come lei ha giustamente fatto osservare, l’impegno lavorativo nella scuola dell’infanzia e primaria risulta per ammissione del Parlamento addirittura più logorante. I “maestri”, evidentemente più esposti al burnout, hanno infatti da qualche tempo diritto all’Ape Sociale: una possibilità riservata a poche categorie, che permette l’anticipo pensionistico senza particolari decurtazioni. Un altro dato da evidenziare è anche quello che il numero di ore “frontali” dei maestri risulti decisamente maggiorato.
Aggiungo che la parte prevalente della giurisprudenza e dei giudici ritiene che il grado di responsabilità dei docenti debba essere considerato inversamente proporzionale all’età del discente: quindi, più è piccolo l’alunno, più il pericolo per l’insegnante è maggiore. In pratica, se si esamina il rischio potenziale di incidenti o infortuni che possono capitare agli alunni, con i docenti in qualche modo coinvolti con possibili responsabilità, i maestri fino alla quinta primaria sono di gran lunga i più esposti. Ma questa eventualità non viene neanche considerata con uno straccio di indennità in busta paga. Ed è molto probabile che anche nell’ambiente sindacale siano d’accordo con questa tesi.
Più di qualche docente della secondaria di primo e secondo grado potrebbe obiettare tuttavia che la qualità dell’insegnamento non è proprio la stessa: quando gli alunni hanno meno di 11-12 anni, secondo questa logica, le lezioni si possono preparare in meno tempo e con contenuti di “spessore” ridotto.
Inoltre, sempre secondo tale “metro”, basterebbe guardare al trattamento economico dei professori universitari per rendersi conto che le ore di lezione settimanali o annue non esauriscono la professione, ma rappresentano solo uno spaccato, in certi casi nemmeno quello principale.
Le risposte di chi vorrebbe mantenere lo status quo, però, non convincono. Se i titoli di accesso e la formazione per insegnare nella scuola del primo ciclo sono analoghi a quelli per fare lezione nella secondaria, se l’impegno professionale non è da meno, se addirittura i maestri per ammissione dello Stato si “logorano” più in fretta e possono lasciare a 63 anni (con 35 di contributi), allora credo proprio che i tempi per un’equiparazione stipendiale siano davvero maturi.
Ad essere realisti, tuttavia, il vero nodo da sciogliere è un altro: riguarda l’aspetto economico. Poniamo che in media un docente della scuola secondaria percepisca 250 euro lordi al mese in più, che fanno 3 mila euro l’anno (a cui aggiungere un 20-25% di costi accessori). Se moltiplichiamo i circa 3.500-4.000 euro di differenza per oltre 300 mila maestri della scuola dell’infanzia e primaria arriviamo a superare un miliardo l’anno che lo Stato dovrebbe tirare fuori stabilmente.
Una cifra che di questi tempi nessun governo credo possa permettersi di dirottare verso i nostri pur valorosi insegnanti del primo ciclo.
Alessandro Giuliani