Spesso si attribuisce l’insuccesso della formazione scolastica, secondo quanto rilevano i dati INVALSI, ad un percorso di formazione del personale docente fatto senza una adeguata integrazione tra conoscenze disciplinari e psico-pedagogiche, teoriche e pratiche.
Certo qualche dritta didattica non farebbe male al neo-insegnante che appena inserito nelle graduatorie d’Istituto viene catapultato improvvisamente in classe senza avere la benché minima percezione di come deve tenere la classe e di come approcciarsi nell’arte della comunicazione formativa. Nonostante la notevole evoluzione pedagogica verificatesi nel corso del tempo e la copiosa letteratura esistente in materia ancora oggi vengono assunti neolaureati senza una adeguata formazione in materia.
Del resto, se la Scuola ha bisogno non bada a sottigliezze di questo tipo, come anche nel caso degli insegnanti di sostegno. Caso grave, quest’ultimo, perché affidiamo loro i nostri figli con maggiori problematiche senza che abbiano dimostrato il possesso di reali competenze formative in materia di sostegno. Ma a pensarci bene anch’io, molti anni fa, ho fatto così! Anch’io sono stato catapultato, all’improvviso, in una classe senza sapere cosa dire in quell’ora di “full immersion”! Forse siamo in tanti che abbiamo dovuto imparare a fare gli insegnanti partendo da zero. Ma è concretamente possibile insegnare a qualcuno come fare bene l’insegnante? Il sapere insegnare bene è un’arte particolare, direi meglio speciale, che richiede passione e predisposizione.
Essere artisti non è da tutti! Posso studiare e conoscere le tecniche di pittura o di scultura ma se non sono artista dentro la mia opera non parla al cuore di chi la contempla, perché non evoca alcuna sensazione. Le tecniche pedagogico – didattiche sono utili ma non bastano. Tutti i nostri insegnanti del passato non necessariamente avevano ricevuto una specifica formazione pedagogica; eppure, hanno comunque saputo trasmettere ciò che serviva per crescere sotto tutti i punti di vista. A pensarci bene tutti sono in grado di relazionare con tutti. Per gli insegnanti la differenza sta nel saper trovare il più idoneo modello comunicativo. Ed è proprio qui che entra in gioco l’aspetto artistico di questa importante professione.
Ogni insegnante deve trovare, se lo desidera profondamente, il proprio stile comunicativo personale, che non può essere insegnato. Questa specifica personalità educatrice fa sì che i nostri ragazzi diventino capaci di fare progressi e l’insegnante guadagni il rispetto professionale che merita. Spesso ci si perde in argomentazioni sterili quando si parla dell’insuccesso dell’azione formativa della Scuola. Si perde di vista il problema essenziale. I nostri ragazzi hanno bisogno di riacquistare fiducia nella figura formativa dell’insegnante attraverso la condivisione di regole formative semplici ed essenziali. Il nostro modo di essere viene subito compreso dai nostri alunni. Se siamo orientati a fare e a far fare un lavoro scolastico serio che punta a raccogliere risultati concreti sulla base di una reale crescita delle competenze, i nostri giovani lo intendono immediatamente.
Se condividi un patto formativo basato su regole certe di tipo “do ut des” didattico – comportamentale stai pur certo che i risultati ci saranno! Se invece fai percepire di esercitare una certa variabilità valutativa con un conseguente appiattimento complessivo della classe, solo perché così passa il non differenziato messaggio di voler incoraggiare allo studio (quindi includere) anche quelli con minori capacità, hai commesso un volontario e grave errore formativo. Spesso non si tratta di minori capacità possedute dai nostri ragazzi, ma di furbizia e “spensieratezza”. Il messaggio che passa non è, infatti, solo quello di disponibilità ed attesa affinché tu, alunno, risolva i tuoi problemi con lo studio o personali per poi integrarti, produttivamente, nel gruppo classe al quale appartieni. Bisogna certamente saper distinguere le situazioni.
A volte bisogna saper attendere realmente che il ragazzo maturi e premiare la buona volontà che mette, nonostante le modeste competenze dimostrate. Il messaggio che passa è spesso anche il seguente: “…se ho la sufficienza, anche facendo così poco, vuol dire che va bene così. Non mi devo preoccupare. Il 6 mi basta, sarò promosso lo stesso”. Osserviamo spesso che questa “attesa”, da parte del Consiglio di classe, si prolunga per tutto l’anno ed anche negli anni seguenti fino ad arrivare al quinto e ritrovare così agli esami di maturità candidati con gravi lacune formative (inaccettabili) ma che comunque il Consiglio di classe ha avallato ammettendo l’allievo agli esami medesimi. Se i risultati finali sono questi, allora sono false le motivazioni che spingono il Consiglio ad avallare la promozione di questi ragazzi non formati.
Ci devono essere altre motivazioni che muovono i processi valutativi nella Scuola. Ma questo nulla ha a che vedere con la paventata mancata formazione pedagogico – didattica degli insegnanti! Si parla di “riaddestrare” o, comunque, potenziare le competenze, soprattutto metodologiche, degli insegnanti. Ma perché questo non lo si faceva anche 40, o più, anni fa? Anche a quei tempi, mi ricordo, c’erano insegnanti capaci e altri meno capaci. Molti di loro avrebbero avuto bisogno di una azione di questo tipo, anche dal punto di vista delle competenze specifiche della loro disciplina di insegnamento. Perché non si modifica, invece, la normativa scolastica verso una maggiore etica professionale ed un ritorno ai valori della meritocrazia didattica. Ecco, qui alcuni insegnanti e dirigenti potrebbero e dovrebbero recuperare un certo deficit. Come sempre nella Scuola ciò che è lapalissiano, ma non lo si vuole vedere o ammettere, viene nascosto sotto il mantello dell’invisibilità delle false problematiche.
Giuseppe D’Angelo
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