A volte mi rendo conto di essere di un’altra epoca.
Perché mai mi sarebbe passato per la testa di chiedere al mio preside di non partecipare ad un incontro previsto dalla scuola, su apposita circolare di convocazione, ammantando “impegni personali”.
Forse sono cambiati i tempi, nei quali il proprio ombelico rimane saldamente al centro del mondo, che è il mio mondo. Eterni adolescenti. Forse che tutte quelle dinamiche relazionali e decisionali, come gli organi collegiali in vigore da oltre 40 anni, sulle quali intere generazioni di presidi e docenti hanno investito, per far uscire la scuola dalla propria autoreferenza, per renderla sempre più “servizio pubblico”, nei termini di una riflessione pedagogico-organizzativa (oggi Ptof), ma anche di “rendicontazione” (con Manuale di Qualità e Bilancio sociale): forse che tutte questi ideali e queste fatiche oggi sono viste solo come un bluff, rivestito da burocratese?
Ovvio, che quando si sperimenta, ci si apre, si possono commettere errori, esagerazioni. Ma buttare via con l’acqua sporca anche il bambino mi pare mai ammissibile.
Si rifletta, si discuta, si ragioni assieme. Ma lo si faccia. Lasciando il proprio ombelico per un attimo da parte.
E che dire della “libertà di insegnamento” oggi nuovamente invocata, nonostante le responsabilità e gli stili educativi collegialmente deliberati, per mascherare l’individualismo, il considerare la dignità del lavoro comune come una sorta di scheletro del passato?
Tra i giovani docenti, molti dei quali, purtroppo, passati attraverso anni di svilente precariato, non sempre si trovano quelli che, entrando in una scuola nuova, freschi di ruolo o di incarico, cercano di comprendere il contesto, di parlare con i colleghi, preferendo rifugiarsi sul programma, sul libro di testo, sulle ore di insegnamento costruite tutte come in passato, cioè sulla sola lezione frontale.
Il vulnus di tutto questo sta a monte: da quando le scuole sono tenute a maturare scelte, stili educativi, priorità di approccio non è più possibile, per l’inserimento dei nuovi docenti (ma anche dei nuovi presidi, come di tutto il personale), limitarsi al burocratismo delle nomine, cioè delle graduatorie.
Ci vorrebbe un filtro finale, sempre sapendo che, alla fin fine, conta l’efficacia del proprio servizio agli studenti e alla scuola, non il mero contratto di lavoro.
Se la “chiamata diretta”, perché male applicata in tante parti, ha provocato le reazioni che conosciamo, che si individuino altre forme, ma che lo si faccia.
Perché una comunità educante non è data dalla semplice somma dei contratti di lavoro individuale. Il tutto è sempre più della somma delle parti.
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