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Docenti, stipendi differenziati? Sarebbe meglio un rimborso spese per chi viaggia

“Ci sono riuscito, non credevo, dopo tanti anni, quasi non ci speravo più. Millecinquecento euro di stipendio, non è granché ma è sempre qualcosa”.

Millecinquecento? Non proprio. La scuola (anzi le due scuole) sono lontane da dove abito. Il trasporto, le pause pranzo, le lunghe e frequenti riunioni. A volte arrivo a casa a tarda sera, stanco e impoverito (in ogni senso). Al netto delle spese non sono proprio millecinquecento euro.

Certo, ci vorrebbe un rimborso o almeno, per chi insegna lontano da casa, un bonus pasto.

Ci vorrebbe proprio. Promettono, a volte, ma nulla fanno.

Fortunato chi non deve viaggiare, per lui lo stipendio è quello senza decurtazione alcuna.

Dopo alcune ‘improvvisate’ del Ministero, mi sono rimembrato di queste brevi considerazioni del mio vecchio collega.

Sì, almeno un rimborso per chi lavora lontano, altrimenti lo stipendio ‘misurato’ subisce altre ‘umiliazioni’ e si genera, inevitabilmente una sperequazione salariale con chi non ha spese extra.

Potrebbe essere una piccola idea per tentare di attenuare le differenze salariali. Certo non risolverebbe il problema, un ‘pannicello caldo’, niente di più. Anzi, direi che in fondo è una pessima ‘fanfullagine’.

Altri e più corposi sono i provvedimenti da prendere.

Meno male che gli Alti Palazzi sono competenti e sapienti (non certo sprovveduti come me) e hanno già fatto proposte serie, ponderate e fattibili.

‘Differenziare a livello regionale i salari in base al costo della vita’.

Un vero colpo di genio (non si sarei mai arrivato) degli alti Papaveri.

Una soluzione perfetta, similare alle gabbie salariali (la parola gabbia mi produce sempre un senso di soffocamento, come se mancasse l’aria e… la libertà).

Certo non è cosa da ‘pigliare a gabbo’ riuscire a definire con precisione la questione. In una città il costo della vita è… in un’altra invece…

Ci si potrà arrivare, comunque, prima o poi, con molta approssimazione però e tenendo conto che tutto deve essere continuamente monitorato e variato. Sarà un affannoso rincorrere ogni variazione sociale ed economica.

Roba da velocisti.

Meglio questa ipotesi, però, rispetto all’ipotesi di differenziazione gli stipendi in base al merito. Ma così si fa a definire matematicamente il merito? Soltanto chi non ha mai insegnato nelle scuole pensa di poterlo misurare. Certo i talenti eccelsi dei Palazzi sapranno come farlo in modo giusto e corretto. Loro. Come? Non saprei neppure immaginarlo. Troppa è la mia ignoranza.

Chissà, comunque, quali altre perle di saggezza ci offrirà il Palazzo in futuro.

Aumentare gli stipendi a tutti, senza distinzione alcuna, e adeguarli agli altri Paesi Europei ma, soprattutto, all’importanza che rivestono i docenti nella società (ruolo fondamentale mai messo in dubbio e valutato con un tesoro immenso di complimenti)? Sarebbe la soluzione più sensata.

No, non voglio illudermi, questo non avverrà mai (non è una saggia idea) in concreto (neanche un miracolo potrebbe avverare un tale desiderio), solo nelle lusinghevoli promesse elettorali avviene, promesse che, come i bei sogni, muoiono all’alba.

Ma noi aspettiamo fiduciosi, ben sappiamo che ogni nuovo Inquilino del Palazzo lancia le sue sfide. Meglio rimangano tali però, per poi spegnersi nel portacenere dei vaniloqui. Solitamente, quando si trasformano in riforme, producono un effetto non del tutto positivo.

Come non rimpiangere, allora, la Prima Repubblica, quando il Palazzo dell’Istruzione non prometteva molto, parlava poco, cercava di gestire al meglio le poche risorse e non caricava i docenti con pesanti fardelli (simili alle schiaccianti pietre portate dai superbi nel Purgatorio dantesco. Certo, ne abbiamo colpe da espiare!).

Le riforme consistevano nel valorizzare e dare fiducia il ‘fattore umano’, senza troppe macchine a cui ‘obbedire’ e nel lasciargli una giusta libertà di agire, senza troppi vincoli, lacci o lacciuoli sociali e giuridici.

Non davano molto, è vero, ma non pretendevano troppo o l’impossibile. Solo insegnare (ed era già tanto).

Poi la scuola è diventata un campo di battaglia politica. Si è parlato di efficienza, produttiva, regole in ‘ogni dove’, obblighi stringenti, risultati evidenti e immediati, ‘customer satisfaction’ e altro. Insomma (anche se lo si negava, più lo si negava) una scuola azienda (cioè la negazione della scuola stessa ).

Riforme su riforme arrivavano da ogni governo (senza controllarne prima gli effetti di una, già ne era approvata un’altra). Ognuno ha voluto lasciare la sua impronta (un po’ come le lumache) ed ogni anno è una sorpresa (per lo più non positiva).

Caro professore, il solito mugugno genovese di fronte all’inevitabile progresso (verso dove?) o solo la nostalgia dei tempi passati, costretto ora a sentirti un minimo ingranaggio di un processo dinamico di trasformazione troppo veloce e in cui non mi riconosco (non è la ‘mia’ scuola)?

Solo la nostalgia e il rimpianto della gioventù perduta nella notte. E’ chiaro.

Ma arriverà mai la pensione prima della fine. Altro tema delicato.

Ma questa è un’altra storia.

Andrea Ceriani

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