I cittadini sono tutti uguali davanti alla legge; i docenti, invece, no. Lo dimostra in modo chiaro la serie di differenziazioni presenti nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) tra personale a tempo determinato (circa 200.000 insegnanti) e personale a tempo indeterminato, specie per quanto concerne ferie, permessi e assenze.
Eppure nel nuovo contratto, firmato il 18 Gennaio 2024 — valido per il triennio 2019/21 (con la consueta asincronia, tipica delle stranezze italiane nell’ultimo trentennio neoliberista) — una miglioria è stata introdotta a favore dei docenti precari assunti fino alla fine delle lezioni (30 giugno o 31 agosto): per costoro, i tre giorni di permesso per motivi familiari o personali, precedentemente non retribuiti, saranno ora retribuiti. Almeno fino a nuovo ordine. Chi ha un contratto di supplenza più breve (anche di un giorno), dovrà invece accontentarsi, per motivi personali o familiari, di sei giorni di permesso non retribuiti (art.35 CCNL, comma 13).
Strano Paese l’Italia. I permessi per motivi familiari o personali riguardano circostanze che hanno conseguenze sull’equilibrio psichico, fisico e sociale del docente e della sua famiglia: se il docente li richiede, è perché evidentemente non può occuparsene fuori dell’orario di lavoro. Perché allora riconoscere questo diritto solo a chi è più garantito? In fondo si tratta di pochi giorni l’anno, per la categoria meno assenteista del Pubblico Impiego.
In questo modo però lo Stato risparmia qualche bel soldino, e ciò ci deve bastare. Sarà forse per questo che i precari sono e restano tantissimi, nonostante le molteplici cattedre vacanti e le classi troppo numerose?
Un precario non può nemmeno ammalarsi. Se “disobbedisce”, ha diritto alla conservazione del posto? Sì, ma per un numero di giorni non superiore a nove mesi in un triennio scolastico (art. 35/3 CCNL); per il docente “di ruolo” i mesi sono 18. In ciascun anno scolastico solo il primo mese di malattia del precario è pagato (per i docenti stabili lo sono i primi nove mesi); ma il secondo e il terzo sono pagati la metà (per i docenti stabilizzati la paga dei seguenti tre mesi è al 90%, al 30% per gli ultimi sei). I periodi restanti non sono retribuiti, e permettono unicamente la conservazione del posto.
Non solo: il docente precario “gode” di otto giorni di permesso, non retribuiti, in un intero anno scolastico (art. 35/13 CCNL), per la partecipazione — irrinunciabile quando si è precari — a concorsi o esami. Tuttavia «I periodi di assenza senza assegni interrompono la maturazione dell’anzianità di servizio a tutti gli effetti» (art. 35/13 CCNL): non hanno cioè valenza economica né giuridica. Infatti, i giorni di permesso retribuiti (come i tre di permesso per motivi personali e i sei di ferie fruibili dai docenti a tempo indeterminato) si calcolano nell’anzianità di servizio; invece i giorni di permesso non retribuiti interrompono l’anzianità di servizio stessa.
Non è cosa da poco: interrotta l’anzianità di servizio, l’anno scolastico potrebbe non risultar valido per la ricostruzione di carriera e per il calcolo del punteggio del servizio preruolo in fase di mobilità.
Doverosa una riflessione. Può l’interesse economico di uno Stato democratico ledere l’uguaglianza dei cittadini (anzi, l’uguaglianza di lavoratori addetti alle medesime funzioni), dividendoli secondo la durata del loro incarico (peraltro non scelta dal lavoratore)? I docenti a tempo determinato non hanno più gli stessi diritti di quelli a tempo indeterminato (prima del D.Lgs. 29/1993 definiti “di ruolo”).
Solo l’anno scorso la Retribuzione Professionale Docenti (RPD, come minimo 174,50 euro mensili) è stata riconosciuta ai docenti precari. Ora qualcosa si sta muovendo, quindi; ma non basta. C’è da chiedersi come tali disparità possano esser state tranquillamente avallate dai sindacati che hanno firmato i contratti di quest’ultimo trentennio (ottenendo in cambio diritti sindacali che sono invece negati ai sindacati non firmatari).
È appena trascorsa la giornata dell’8 marzo; tra grandi dichiarazioni di solidarietà con le donne, come tutti gli anni. Nessuno però sottolinea abbastanza che, nella Scuola italiana — dati ufficiali del Ministero dell’Istruzione e del Merito – l’82,7% dei docenti a tempo indeterminato è donna. Tra quelli a tempo indeterminato un po’ meno: “solo” il 77,6%!
Già gli insegnanti — se la nostra lingua fosse meno sessista sarebbe opportuno dire “le” insegnanti — guadagnano meno degli altri laureati italiani. Le disparità tra precari e personale a tempo indeterminato, quindi, svantaggiano soprattutto un gran numero di donne dedite a questa nobile e — in Italia — bistrattata professione.
Nel nostro Paese le donne sono avvezze da millenni ad esser trattate sul lavoro peggio degli uomini, ad esser pagate di meno, a far carriera meno dei maschi. “Casualmente” questa diseguaglianza coinvolge oggi l’intero comparto Scuola, il cui personale docente è in assoluta maggioranza composto di donne: 96% nella Scuola primaria, addirittura 99% nella Scuola dell’infanzia!
Eppure dovrebbe esser terminato il tempo in cui si credeva che gli insegnanti lavorassero solo la mattina, e persino quello in cui si supponeva che comunque il lavoro pomeridiano dei docenti potesse comodamente svolgersi fra le mura domestiche.
Oggi la professione docente è terribilmente impegnativa e stressante. Non lo è meno per i precari (e per le precarie, strabordante maggioranza), che incontrano molte difficoltà in più, prima fra tutte quella economica: anche perché troppo spesso sono pagati con mesi di ritardo.
Occorrono dunque leggi davvero democratiche, che rendano meno vantaggiosa per lo Stato la condizione del precario, se vogliamo tirar fuori i precari dall’inferno quotidiano che li (le) attanaglia. Occorre però anche una categoria docente che ne prenda coscienza, riacquistando consapevolezza di sé, della propria dignità culturale (base di un insegnamento proficuo), delle ingiustizie che la riguardano e della necessità di ripartire — per difendersi — dalla solidarietà.
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