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Docenza aperta agli extracomunitari: la cittadinanza non sempre è necessaria

Un bambino non italiano che arriva nel nostro Paese per raggiungere la famiglia, vi si stabilizza e nel corso degli anni frequenta la scuola fino a laurearsi (all´Università di Genova in lingua araba e francese) ha diritto ad insegnare nelle scuole pubbliche. Anche se ha 28 anni e non ha ancora ottenuto la cittadinanza italiana. È questo il parere del Tribunale del Lavoro di Genova, che ha esaminato il caso di un aspirante docente di origine marocchina, a cui un istituto secondario di primo grado ligure aveva interrotto la supplenza dopo aver scoperto che il requisito di possedimento della cittadinanza presentato all’atto della domanda non corrispondeva a verità.
Il signor Kaabour – hanno fatto sapere dall’amministrazione dell’istituto, situato a Cornigliano – aveva presentato la domanda per la graduatoria in un altro istituto, non ci eravamo accorti che era privo di cittadinanza. Purtroppo noi non possiamo fare niente: il regolamento parla chiaro e la scuola automaticamente ha dovuto emettere un decreto di decadenza”. Il provvedimento è stato però impugnato. A mettere in contatto l’aspirante docente con l’avvocato “vincente” è stata la Cgil Immigrati: il difensore del cittadino marocchino (nel frattempo diventato italiano) si è rivolto al Tribunale del capoluogo genovese relazionando il danno subito sulla base del Testo Unico sull´immigrazione, dove questo genere di episodi vengono collocati come discriminanti perché assimilabili a motivi razziali, e del regolamento per accedere alle supplenze, che tra i requisiti annovera anche l’obbligo di possedere la cittadinanza italiana. E al giudice ha poi spiegato che “un extracomunitario che vive in Italia regolarmente da molti anni ed ha già inoltrato la richiesta di cittadinanza è sicuramente più ‘legato´ al nostro Paese di qualsiasi cittadino comunitario che magari dimora in Italia da pochi mesi”.
Anche se nel frattempo ha trovato un’altra occupazione (“ora faccio il mediatore culturale ma vorrei tornare ad insegnare”), il giovane nordafricano ha raggiunto quel che voleva: dimostrare che il suo licenziamento (“come quello di tutti gli altri stranieri come me che abbiano la possibilità di insegnare nelle scuole italiane”) è stato ingiusto. Obbligando il Miur a risarcirlo dei danni “materiali e morali” creati dal licenziamento. Oltre che a reinserirlo nella graduatoria d’istituto da dove era stato cancellato.
Il prezzo da pagare per imporsi in questa battaglia di diritti negati potrebbe tuttavia essere un po’ salato. Nell’intraprendere il ricorso, marocchino e avvocato hanno forse sottovalutato un aspetto tutt’altro che marginale: i rischi derivanti dalla dichiarazione non veritiera sul possedimento della cittadinanza italiana. “Quando mi hanno chiamato – ha ammesso candidamente il giovane – non ho pensato di aver aggirato l´ostacolo mentendo, ma di essere stato scelto per quello che sono: un insegnante qualificato”. Solo che per la legge italiana mentire sui titoli utili alla formulazione di una domanda di supplenza è un atto considerato più di un’innocente bugia: il D.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445, che permette di dichiarare il possedimento dei titoli culturali e dei servizi svolti ha infatti pieno valore “di dichiarazioni sostitutive di certificazione”. Con conseguenze, citate all’articolo 76 dello stesso Dpr,di carattere amministrativo e penale per l’aspirante che rilasci dichiarazioni non corrispondenti a verità”. Ora poiché l’episodio della supplenza negata ha assunto i contorni di un caso pubblico è probabile che la legge venga applicata in tutti i sensi. Con il rischio fondato che se la falsa attestazione dovesse produrre per l’aspirante docente, oggi italo-marocchino, una sentenza di condanna stavolta le porte della scuola, come quelle di ogni ruolo professionale in ambito pubblico, potrebbero chiudersi senza possibilità di appello.
Alessandro Giuliani

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