A Barbiana si festeggia, alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, il centenario della nascita di don Lorenzo Milani. Alla presenza anche del presidente della CEI card. Matteo Zuppi.
Lo Stato e la Chiesa, dunque, a Barbiana, un piccolo borgo del cuore del Mugello. Barbiana non è un paese, nemmeno un villaggio, ma solo una piccola chiesa con la canonica e poche case sparse tra le colline.
La presenza assieme di Mattarella e Zuppi ci dice una cosa: che sia la nostra Repubblica, sia la Chiesa italiana devono molto a questo prete. Osteggiato ed oltraggiato in vita, forse anche oggi da alcune frange tradizionaliste, eppure imprescindibile per capire ed imparare ad orientarsi nelle complessità di questi nostri tempi.
Nel rapporto con le istituzioni (pubblica ed ecclesiale), come anche con la società tutta, con quel “I care”, cioè con quel “prendersi cura” che è il primo segno tangibile della moderna società.
In un mondo senza più punti di riferimento, senza più verità evidenti, in mano al groviglio delle opinioni, il richiamare il cuore della socialità, lo stiamo vedendo in questi giorni, è sempre cosa buona e giusta. E non ha più senso parlare di obbedienza fine a se stessa (“L’obbedienza non è più una virtù”) se non è accompagnata dalla corresponsabilità.
Forse è il mondo della scuola però ad essere il più debitore del “segno” lasciato da don Milani. Perché insegnare, appunto, vuol dire lasciare un segno, richiamando poi ognuno alle proprie responsabilità, cioè ai propri diritti ma anche ai propri doveri.
Perché è nel mondo della scuola, con la sua scelta di seguire i bambini della povera gente non solo socialmente, ma attraverso la formazione, la cultura, i diversi linguaggi (le materie scolastiche non sono altro che lingue diverse attraverso le quali imparare a leggere e pensare il cosiddetto “mondo”).
Responsabilità significa offrire e costruire assieme spazi di reale giustizia, cioè di pari opportunità: “Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diversi”; “dall’ingiustizia si esce insieme”.
Discorsi che valevano allora, tempi nei quali (anni cinquanta e sessanta) la formazione era per pochi, ma che valgono anche oggi, se pensiamo ai dati della dispersione e delle varie fragilità.
Perché, in fondo, oggi non ci sentiamo coinvolti dalla politica, cioè nella responsabilità del bene comune? Basta dare un’occhiata al continuo calo di votanti alle varie elezioni. Perché non ci sentiamo rappresentati, cioè parte di una comunità.
Don Milani ha creato dal nulla una scuola anomala, cioè una scuola privata. Nemmeno, come si chiama oggi, paritaria, ma privata. Tanto da dover poi iscrivere i suoi ragazzi, per l’esame finale, ad una scuola statale. Scelta che portò alla famosa “Lettera ad una professoressa” del maggio del 1967. Un mese prima della sua morte, il 26 giugno 1967, a soli 44 anni.
Don Milani, in poche parole, impose all’attenzione di tutti una cosa oggi ovvia: che la scuola non è solo dei docenti, ma per e con i ragazzi. Cioè la centralità dello studente che impara, e non del docente che insegna. Centralità in termini di risultati di apprendimento e di sensibilità relazionale, oltre che di diritto di cittadinanza. Con diritti e doveri. Perché don Milani con i suoi ragazzi non era di certo tenero, ma severo, proprio perché non ci sono diritti senza doveri, cioè dirette responsabilità.
Ma se i cittadini votano sempre meno, anche in Chiesa ci vanno sempre meno.
E qui si innesta l’insegnamento di don Milani anche verso la sua Chiesa, che mai ha rinnegato. Pensiamo allo straordinario suo libro del 1958 (“Esperienze pastorali”, che ricevete una stroncatura con condanna dall’Osservatore Vaticano, oggi cancellata), con il quale fa una analisi sociologica di una parrocchia di quegli anni, con le contraddizioni che conosciamo. Cioè la fede come abitudine, consuetudine, non come scelta e affidamento consapevole alla teologia della Croce.
Se oggi, come dicono i sociologi, prevale la “sindrome del ritiro” dall’io, come possiamo parlare e portare tutti alla consapevolezza di essere titolari di dignità, con diritti ma anche con doveri?
Vedendo, in questo ultimo disastro in Romagna, tanti giovani che hanno il coraggio di sporcarsi, dunque di esserci: allora possiamo ancora dire che non è vero che tutti, giovani ma anche adulti, sono in crisi, sono solo egocentrici. No, c’è ancora senso della solidarietà e del bene comune!
Basta che venga coltivato, questo bene comune, e non mascherato.
Resta la domanda: perché un giovane, come Lorenzo, ad un certo punto, dedicò anima e corpo al Vangelo?
Dopo il liceo, figlio di una famiglia bene di Milano, scelse l’accademia di Brera pensando di diventare pittore e di dedicarsi alla vita estetica. Ma fu un messale della messa in latino a folgorarlo. Tanto da diventare prete. Ma, da uomo di studio, sapeva che il vero riscatto sociale passa attraverso la cultura e la formazione. Accettando una parrocchia periferica di 40 anime, come Barbiana, ma dedicando tutto se stesso per consentire alla povera gente quell’ascensore sociale che oggi sembra scomparso, applicò sino in fondo il dettato evangelico, diventando punto di riferimento per tutti.
Criticò, perciò, quella scuola media che era nata da pochi anni, nel 1962, perché non basta cambiare il contenitore per cambiare il contenuto.
Perché la scuola deve essere sì severa e rigorosa, ma deve partire dai talenti, dalle capacità, dalle sensibilità. E valorizzare il bene di ciascun ragazzo o ragazza, ma secondo uno sguardo in positivo, carico di rispetto e di dignità.
Altrimenti, continuerà a perdere questi ragazzi, privilegiando, paradossalmente, per estrazione culturale e sociale, chi della scuola, in realtà non ne avrebbe bisogno. Perché ha già tutte le opportunità.
Il 26 maggio alle ore 16.30 la nostra testata proporrà una diretta con esperti che ben conoscono il lavoro e l’opera del “Priore di Barbiana”: Enrico Bottero, pedagogista e ricercatore e un ex alunno di Don Milani, Paolo Landi.
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