Categorie: Personale

Donne in pensione a 61 anni, la scuola paga il prezzo più alto

Nella scuola le docenti d’infanzia e della primaria sono notoriamente un numero di gran lunga superiore rispetto ai colleghi maschi. È quindi inevitabile che siano numericamente proprio loro, le cosiddette “maestre”, le più danneggiate dall’introduzione della legge n. 102/09, quella che dal 1° gennaio 2010 fa slittare di un anno l’accesso alla pensione di vecchiaia per le dipendenti statali che compiranno 60 anni nell’anno appena iniziato.
Il provvedimento, giustificato dalla maggioranza, con in testa il ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, come non può procrastinabile dopo la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia Europea, del 13 novembre 2008, che ha bacchettato l’Italia per l’iniquità della legge che permette alle donne di accedere alla pensione cinque anni prima degli uomini, quest’anno comincerà a far sentire i primi effetti: delle 3.500 dipendenti pubbliche che nel 2010, in coincidenza con il compimento dei 60 anni, avrebbero potuto accedere alla pensione di vecchiaia e che sulla base di alcune stime dell’Inpdap invece rimarranno in servizio per un altro anno, circa la metà appartengono nel settore dell’istruzione (non a caso il 48% delle statali, dato recentemente reso noto dalla Ragioneria Generale dello Stato, è concentrato nella scuola). In particolare nella scuola per l’infanzia, dove le donne rappresentano il 99,5% di docenti, e della scuola primaria, dove fanno registrare un sempre alto 96%. Un po’ più equilibrato, invece, il rapporto lavoratrici-lavoratori nella scuola secondaria di primo grado (dove il 77,8% degli insegnanti è di sesso femminile) ed in quella secondaria di secondo grado (62,3% contro il 37,7%).
Pur con le cautele derivanti da particolari concentrazioni di lavoratrici in altri comparti pubblici, si presuppone quindi che circa la metà delle 3.500 dipendenti (sulle 6.000 totali che ne avrebbero beneficiato senza la nuova legge) faranno parte del personale Ata ma soprattutto siano insegnanti. Del resto se è vero che nella pubblica amministrazione le donne sono in assoluto coprono il 55% dei posti, nella scuola la percentuale sale fino a circa l’84%.
L’Inpdap ha anche precisato che “il personale femminile a tempo indeterminato che entro fine 2010 compie 61 anni di età matura il diritto alla pensione di vecchiaia dal 1° settembre, a condizione che il requisito minimo contributivo sia comunque raggiunto entro il 31 agosto“.
La nuova legge prevede inoltre un graduale innalzamento dell’età minima per la pensione di vecchiaia delle donne in servizio presso una delle amministrazioni dello Stato: ogni due anni, a partire sempre dal 1° gennaio 2010, si incrementerà la soglia di un anno fino a raggiungere l’equiparazione con gli uomini nel 2018. Continuerà a mantenere il requisito dei 60 anni solo personale femminile delle forze armate
Come continuerà a rimenare, anche se solo per un anno, la norma che fissa i requisiti per accedere alle pensioni di anzianità un’età anagrafica non inferiore a 59 anni e 36 anni di servizio (quota 95). Tra un anno, invece, entrerà in vigore quota 96: per i lavoratori dipendenti l’età anagrafica non dovrà esser inferiore a 60 anni. Poi, dal 2013, i dipendenti statali che vorranno lasciare il servizio precocemente dovranno aver accumulato 97 anni, con addirittura uno slittamento di un anno, sia per la parte contributiva e sia per quella di anzianità anagrafica.

Andare in pensione sarà più invece penalizzante da un punto di vista economico già dal 2010. Da quattro giorni sono infatti scattati i nuovi coefficienti di trasformazione in base al meccanismo, introdotto dalla riforma Dini del 1995, legato all’allungamento dell’aspettativa di vita: secondo la Cgil rispetto ai valori in vigore fino al 31 dicembre del 2009, si registra una riduzione che va dal 6,38% per chi va in pensione a 57 anni all’8,41% per chi ci va a 65 anni.
Ciò significa che “su una pensione di 1.700 euro lordi – ha spiegato il segretario Confederale della Cgil Morena Piccinini – quella di un impiegato, si perderanno rispetto ad oggi ben mille euro l’anno“.
I trattamenti interessati dai nuovi parametri sono quelli calcolati con il sistema misto (cioè retributivo più contributivo) e quelli calcolati con il solo sistema contributivo. La riforma è infatti frutto del passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, dove ciò che conta sono i contributi effettivi versati durante la propria vita lavorativa (seppur rivalutati ogni anno in base al Pil) e gli anni di aspettativa di vita (che stanno progressivamente aumentando): al termine della vita lavorativa il ‘montante’ di contributi versati viene suddiviso per il numero di anni durante i quali presumibilmente si percepirà l’assegno.

Alessandro Giuliani

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