Si tratta di un investimento massiccio, quella sulla “buona scuola”, che a regime dal 2016 richiede più di 3 miliardi di spesa (a fronte di economie richieste al Miur già dal 2014 di 600 milioni di euro).
L’Italia, scrive La voce.it, ha dovuto recuperare un divario di scolarità rispetto all’Europa che ha spinto i Governi a investire consistenti risorse nei segmenti dell’istruzione dell’obbligo, fino ad arrivare a introdurre lo schema di due insegnanti per classe in presenza del tempo pieno. La numerosità degli insegnanti faceva premio sui loro livelli retributivi (tra i più bassi dell’Europa), ma l’effetto complessivo era un gonfiamento della spesa, di cui si ravvisano ancora gli effetti di trascinamento. Se a questo si aggiunge il fatto che circa un insegnante su sette è di sostegno, si comprende come sia possibile combinare costi complessivi elevati e bassi livelli retributivi. Nel corso dell’ultimo decennio la situazione si è parzialmente modificata per effetto dei tagli introdotti dai Governi di centro-destra.
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Nel 2011 (ultimo dato comparabile disponibile) l’Italia spendeva il 3,1 per cento del Pil in istruzione primaria e secondaria, contro una media europea (a 21 paesi) del 3,6 per cento, mentre le corrispondenti cifre per il livello terziario (che in Italia è rappresentato quasi esclusivamente dal segmento universitario) erano pari rispettivamente a 1 per cento e 1,4 per cento.
Per entrambi, il divario con l’Europa si è allargato di circa 5 punti percentuali, ma il dato è palesemente peggiore nel caso del livello universitario (dove raggiunge quasi il 30 per cento) rispetto al livello dell’obbligo (dove il divario è dimezzato, essendo pari al 14 per cento).
I dati dunque, scrive La Voce.it, sembrano suggerire che il divario più consistente da colmare con i paesi europei risieda chiaramente nella formazione terziaria piuttosto che nella scolarità dell’obbligo.
L’investimento aggiuntivo di cui si parla nella proposta sulla “buona scuola” è pari alla metà di quanto attualmente viene destinato come Fondo di finanziamento ordinario per l’intero sistema universitario, e sarebbe quindi in grado di incoraggiare una ripresa delle iscrizioni universitarie ormai in declino da qualche anno.
Conclude La Voce.it: destinare fondi alla formazione primaria, sbilanciata più all’assunzione di insegnanti che alla messa a norma degli edifici, oltre che all’impiego degli stessi insegnanti in settori curriculari non principali (musica, arte, educazione fisica) e al sostegno scolastico (per via della loro appartenenza concorsuale), rischia di dirottare risorse preziose e politicamente molto costose a un miglioramento del sistema scolastico che può essere molto marginale rispetto ai risultati attualmente già conseguiti.
Tuttavia se da un punto di vista strettamente e freddamente statistico e ragionieristico, il ragionamento della Voce.it si potrebbe accettare, da un altro invece la questione è assai più complessa, perché i 150mila precari (per assorbire i quali è prevista la maggior parte dei fondi messi a disposizione) non si sono autoproclamati tali per una loro egoistica pretesa, ma sono stati chiamati dallo Stato per sopperire alle sua stravaganti mancanze e consentirgli nello stesso tempo di mantenere in vita un servizio essenziale. Usarli e poi gettarli, dopo magari decine d’anni di servizio, non appare eticamente e legalmente accettabile, dopo fra l’altro le sentenze della Corte di giustizia europea.
Un ciclone, quello del precariato scolastico, messo in moto lentamente da apprendisti riformatori e che oggi qualcuno, a qualunque costo, deve fermare e soprattutto impedire che si riformi.
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