Home I lettori ci scrivono Dove sono finite le felicità di imparare e di insegnare?

Dove sono finite le felicità di imparare e di insegnare?

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Un mio collega, persona di grande esperienza e di altrettanta gande simpatia, mi ripete, direi quasi ogni mattina, alla prima ora di lezione, vicino ad un calorifero faticosamente da noi conquistato nell’aula professori del nostro liceo: “la scuola versa in una crisi epocale e nessuno fa nulla”.

Sappiamo che la percezione di una disfatta del sistema scolastico italiano aleggia in ogni dove, dalle pagine culturali di giornali e riviste alle trasmissioni televisive più frivole, con ricette più disparate per la soluzione di quelli che sono visti come i grandi mali della scuola.

Con una sapiente alternanza, che dipende spesso dall’ultimo fatto di cronaca alla ribalta, sul tavolo degli imputati compaiono la società, i genitori, i nuovi adolescenti, con il loro corredo emotivo apatico, i programmi lontani dalla realtà del mondo contemporaneo, l’incapacità di adeguarsi alle concrete necessità professionali, i fondi insufficienti, ma più spesso, mi pare di poter dire, i professori giudicati incompetenti.

I Ministri che, negli ultimi quindici anni, si sono avvicendati in via Trastevere, forse consapevoli di tutto ciò, hanno messo in campo disparate mini riforme, che però, a quanto pare, non hanno risolto la situazione e per qualcuno l’hanno anche aggravata, almeno per il mio collega che ripete inesorabilmente il suo mantra.

Ora, io non intendo certo ergermi a solutore di problemi che nessuno ha ancora risolto, tuttavia vorrei limitarmi ad alcune riflessioni; mi sento di poterle fare, anche sulla base del fatto che posso dire di essere entrato in una scuola come insegnante a partire dagli anni ’80 e quindi i cambiamenti li ho vissuti direi da protagonista.

Ciò che sento cambiata negli ultimi quarant’anni è la felicità di imparare. Se posso aggiungere anche la felicità di insegnare. La felicità sembra sparita dalle scuole e non compare nel dibattito sulla scuola. Quando il Ministro parla di recuperare l’autorità del docente io gli chiederei piuttosto di recuperare la sua felicità. La felicità di imparare, quella che traspare da una delle tante immagini di una scuola magari svedese o finlandese (ideal-modello), in cui gli studenti sono intenti a lavorare in classe senza la presenza assidua di un qualche docente che, se appare, si limita a sorridere soddisfatto.

Quella felicità che emerge anche da una qualche foto sbiadita, in bianco e nero, di Don Milani con i suoi alunni di Barbiana o di Sartre con i suoi studenti della Sorbona. Nel mio piccolo lavoro di docente di filosofia e storia a volte incontro la felicità di imparare degli studenti, la vedo quando tratto questioni per loro “attraenti”, quando per esempio parlo di Freud o del fascismo. I loro visi si contraggono, le penne si muovono sui fogli più agilmente. Non conta la lezione frontale o il debate o la flipped classroom o il compito di realtà. Lì incontro la loro felicità e la mia, nulla più. Mi sono chiesto spesso perché una tale felicità non appaia sempre o più spesso, certamente accuserei la mia incapacità di essere sempre empatico, ma forse non è del tutto così.

A questo proposito vorrei ricordare un libro pedagogico di Nietzsche, dal titolo “Sull’avvenire delle nostre scuole”, in cui l’autore riflette sui momenti felici del suo imparare e scrive: “… ancora non sapevamo con precisione cosa saremmo diventati, anzi, non ci preoccupavamo affatto di questo problema (…) non volevamo significare nulla, tendere a nulla, volevamo essere senza avvenire…”. A prescindere dai toni enfatici e romantici presenti nelle parole dell’autore, forse sta proprio qui la questione. La felicità dell’imparare forse scaturisce quando la scuola si riserva un campo di astrazione libero, un po’ separato dall’esterno, dal mondo, dal quotidiano.

Mi spiego meglio, un’area in cui trattare il sapere oltre la sua utilità immediata, direi anche lavorativa; quando insomma tratta del quotidiano e del reale nella forma dell’astratto. Quando la scuola gioca a sollecitare il pensiero e le emozioni oltre l’utile “entrando nei corpi”, senza scadere nel trascendente. Quando, di fatto, l’immaginazione spazia liberamente, senza essere al servizio di un qualche scopo concreto, di un obiettivo. Oggi forse stiamo facendo il contrario. Più avanti nel testo citato Nietzsche scrive, a proposito di cosa stia diventando la scuola, in tono profetico: “…in modo tale che dalla sua quantità di conoscenza e di sapere egli tragga la più grande quantità possibile di felicità e di guadagno (…) secondo questa prospettiva, è malvista ogni cultura che renda solitari, che ponga dei fini al di là del denaro e del guadagno, che consumi molto tempo”.

Noi abbiamo caricato la scuola di tutto ciò che ci sembrava utile, l’abbiamo piegata all’utile concreto, pensando che rendesse felici e desse alla scuola un vero senso, abbiamo liberato la cultura dalla torre d’avorio, abbiamo insegnato le lingue straniere più utili ai fini economici, per inciso sia chiaro: degne come tutte le altre lingue di essere studiate, abbiamo inserito l’educazione civica, nulla di più utile per formare un cittadino, abbiamo valorizzato il rapporto scuola lavoro introducendo i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, cosa vi è di più utile che ben orientare e far conoscere il mondo del lavoro, ma ci siamo dimenticati della felicità e la stiamo pagando.

Abbiamo anche ritenuto che fosse più utile che la matematica facesse i conti con la realtà e non con l’astratto, abbiamo chiesto alla poesia di misurarsi con i compiti di realtà, evitando il più possibile “l’inutile”, abbiamo chiesto alla filosofia possibilmente di evitare pensatori considerati inutili come Leibniz o Hegel e le abbiamo chiesto di puntare su argomenti considerati utili, magari vicini alla sociologia, alla psicologia sperimentale o all’epistemologia, sempre adatti a completare le conoscenze, per esempio, di un medico, di un dirigente d’azienda o di un ingegnere. Peraltro una richiesta inconciliabile con la filosofia, ritenuta da Aristotele inutile e per ciò immensa e libera.

Io non so se tutto questo si inserisca in un processo di controllo individuale molto fine e moderno, per dirla alla Foucault di “Sorvegliare e punire”. Ma sicuramente non abbiamo fatto i conti con la natura degli individui i quali, soprattutto nella fase adolescenziale o poco in là, hanno bisogno di fare i conti con la propria crescita e il proprio io e di sviluppare temi forse anche più lenti.

Sgombrerei il campo da eventuali equivoci: nessuno può mettere in dubbio che il sapere e la cultura siano cresciuti attraverso un rapporto dialettico fra il pensiero e la realtà, ciò non è in discussione. Tuttavia, quando si entra in un ambito di apprendimento scolastico, ciò che si pratica non deve essere esclusivamente finalizzato all’utile, allo spendibile. Sarebbe come orientare la ricerca scientifica esclusivamente in ambito applicativo, condotta in sostanza con l’obiettivo di risolvere un problema, dimenticandosi della ricerca di base o pura, ricerca spesso senza un obiettivo specifico, libera.

Quello che sta accadendo forse è inevitabile, stando così le cose. Per dirla alla Freud prima maniera, la frustrazione della propria natura, dei desideri genera aggressività che si scarica, come si sta scaricando ora, nelle nuove generazioni, verso se stessi, con la depressione mascherata in varie forme o in aggressività verso coloro che si reputano come responsabili ovvero gli insegnanti e i genitori. Se pensavamo di salvare i giovani dalla disoccupazione, andando incontro al mondo del lavoro, abbiamo fallito prima di raggiungere la meta e abbiamo forse solo trasformato l’apprendimento libero in una qualche forma di addestramento impoverito.

Marco Navarri

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