Ha colpito un po’ tutti Mario Draghi di fronte ai ragazzi dell’Istituto Alighieri di Sommacampagna.
Perché ha parlato senza filtri della sua storia personale, ma mettendo in primo piano non i titoli accademici o gli incarichi prestigiosi, ma la riconoscenza alla moglie signora Serena, ai suoi genitori e ai docenti che ha incontrato.
Un premier, cioè, che pubblicamente dice i suoi “grazie” non è da tutti i giorni.
Perché, ci ha fatto intendere, noi siamo quelli che siamo grazie anzitutto a coloro che ci hanno aiutato nelle nostre scelte, a valorizzare i talenti, a dare forma alle nostre capacità, a credere in noi.
Ecco, incontrare qualcuno che creda in noi, dicendoci anche le sane verità, è un autentico dono della vita.
Ed un dono, come tale, non va mai sprecato, nemmeno in nome di una libertà ridotta a libero arbitrio.
Perché noi siamo sì libertà, ma, nel crescere della vita, lo siamo non come libertà-da, ma come libertà-con, libertà-per.
Insomma, noi siamo relazioni, e siamo liberi nelle relazioni quando siamo in grado di assumerci, nelle nostre scelte, le nostre responsabilità, con i talenti e le capacità a dare sostanza.
Di solito, da bambini, i miti invocati hanno la lingua e l’immagine dei supereroi, reali o virtuali, cioè proiezioni di persone reali.
Ma col passare degli anni la vita ci impone di andare al sodo, di guardare in controluce gli incontri, le esperienze, anche le fatiche. Cioè tutto ciò che fa la forza dell’esperienza che, con gli anni, si fa saggezza.
E la saggezza, ci hanno insegnato i classici, è non tanto quella di discutere, di ragionare, di ipotizzare, mettendo al centro il proprio punto di vista o angolo visuale, ma, prima ancora, quello di lasciarsi discutere, coinvolgere, in una apertura mentale che sia capace di cogliere, o almeno di intuire, l’essenziale. Quello che non si lascia sedurre dalle logiche dell’immediato. Perché l’essenziale non è mio, o tuo o suo, ma è per tutti.
Con quei “grazie” il premier Draghi credo abbia voluto recuperare anche una preziosa lezione giovanile, ricevuta dai gesuiti nell’Istituto Massimo del quartiere romano dell’Eur.
Parlo del concetto di “santa indifferenza”, di quel senso di distacco che la meditazione sulla vita che cresce dovrebbe sempre accompagnarci. Per cui si viene invitati a dare valore alle cose e alle esperienze che dicono la sostanza della vita e delle relazioni.
Come si nota, l’esatto contrario del comune concetto oggi di indifferenza, che è invece la maschera del proprio tornaconto, cioè dell’individualismo narcisistico.
Questa parola, dunque, se ben compresa, è l’esatto contrario, cioè in-differenza, quindi autentica libertà rispetto al rischio di ridursi a cose tra le cose, con le relazioni ridotte a meri strumenti di un qualche interesse strumentale.
Draghi ha pensato ai suoi genitori, ai propri maestri e alla compagna di una vita. Come noi possiamo pensare alle persone a noi care che ci hanno donato la vita perché riusciamo ad essere noi stessi stessi, un noi non chiuso in se stesso, ma aperto.
E lo fa di fronte ai ragazzi, negli anni fondativi della loro vita. E parlando a loro parla a tutti i giovani, a tutte le famiglie, a tutte le realtà educative.
Pensiamo alla scuola, e al suo compito primario, al di là di materie, percorsi scolastici, varietà dei titoli accademici.
Perché compito primo della scuola (e dell’università) è, si sa, insegnare, ma insegnare significa lasciare un segno, una traccia, perché poi talenti, capacità e passioni possano trovare terreno fertile nella costruzione dell’io personale e sociale.
Del resto, cosa vuol dire iscriversi a scuola? Non è un atto burocratico, è di più. È, detto in altro linguaggio, un modo per domandare: posso affidarti, posso fidarmi di te scuola perché tu mi possa aiutare nella crescita anzitutto umana di mia figlia o di mio figlio? È questo sfondo educativo che, nella sostanza di vita di una classe, assume il ruolo guida, al di là delle strutture, delle tecnologie, degli ambienti, degli orari. Ed è compito dei presidi e dei docenti tenere ben presente questo sfondo. Perché è su questo compito che un docente si gioca il suo ruolo di “maestro di vita”.
Per cui insegnare una materia, una disciplina, un argomento è, sempre, un passare attraverso temi e nozioni, le quali, dunque, non sono mai fini a se stesse.
Il premier Draghi, dunque, con i suoi “grazie” ha voluto raccontare se stesso, ma, in realtà, ha messo a nudo il cuore dell’esigenza prima di ogni istituzione formativa: una equilibrata crescita dei nostri ragazzi.
Quand’è che ci rendiamo solitamente conto del valore di questi “grazie”? Solo quando in famiglia, a scuola e negli affetti siamo in difficoltà. Valorizzare, dunque, il buono che viviamo è il primo modo per seminare quella pace che tutti auspichiamo, anche se spesso solo a parole.
Dunque non è vero che Draghi ai ragazzi ha parlato solo di guerra, come qualche critico ha preteso, quasi giustificando l’invio delle armi agli ucraini come uno stato di necessità che contraddice il lavoro per la pace. Ha fatto invece intendere che la pace si costruisce, che non è mai scontata. A partire dalla famiglia, dalla scuola, dagli affetti. Cioè la vera qualità della vita.
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