Abbiamo letto con un certo stupore e discreta indignazione l’articolo intitolato “DSA e BES: esagerazione o segno di grande evoluzione sociale?”.
L’autore, Giuseppe D’Angelo, scopre subito le sue carte e definisce i Disturbi Specifici di Apprendimento come un grave limite e motivo di vergogna. O meglio, spiega in uno slancio di sincerità che, se a lui stesso fosse stata diagnosticata la dislessia, si sarebbe sentito “stigmatizzato e diverso dagli altri, privato di qualche capacità che gli altri possiedono”. In altre parole, un DSA è visto dall’autore come una colpa, una ragione di svalutazione sociale. Il fatto è, caro D’Angelo, che ciascuno di noi ha dei limiti più o meno grandi, sicuramente anche lei, tutto sta a capire come superarli. Per questi ragazzi, in particolare, significa usare strumenti ad hoc e un metodo di studio efficace. Ma è necessaria anche una consapevolezza, sapere da cosa derivano le proprie difficoltà e per questo serve una diagnosi. In realtà per l’autore la diagnosi avrebbe sovente uno scopo diverso: quello di ottenere “promozioni facilitate”. Da quanto scrive, tra l’altro, si evince che una scuola seria è una scuola che non promuove con facilità. Questo rimanda a un vetusto paradigma del docente che ritiene di essere bravo quando boccia gli alunni e non quando li mette in condizioni di raggiungere quel successo formativo previsto dal D.P.R. 275/99.
La filosofia dello scrivente – ci auguriamo non si tratti di un docente – è una sorta di pedagogia eugenetica. La legge 170, è la sua tesi, non sprona i ragazzi a migliorare ma fa in modo che si arrendano alle proprie difficoltà. “Al contrario – scrive – i campioni paralimpici ci offrono una visione alternativa di come porsi di fronte ad un problema di disabilità vera e propria. Donne e uomini che hanno superato la loro disabilità, che sono stati capaci di abbattere barriere culturali e di mostrare al mondo le proprie abilità!”. Quindi, sembra pensare D’Angelo, chi non eccelle, diventando campione, non ha diritto di cittadinanza nelle aule scolastiche. “Questi ragazzi” insiste infatti l’autore dell’articolo “ci dicono, con il loro esempio, che la disabilità può essere compensata e superata con l’impegno e diventare così eccellenti e superiori ai cosiddetti “normali”!”
In altre parole, un autistico o un dislessico che non superano le proprie difficoltà non si stanno applicando abbastanza, o peggio, in alcuni casi ci marciano, convinti che potranno ottenere una promozione regalata. La soluzione per D’Angelo è l’impegno titanico, non una didattica efficace individualizzata e personalizzata, non gli strumenti compensativi previsti dalla legge 170, non valutazione e verifiche adeguate, scappatoie per inetti e fannulloni.
Sembra di sentire il vecchio, stupido, adagio: “E’ intelligente ma non si applica”, che ha significato per molti studenti dislessici una carriera scolastica piena di incomprensioni, sofferenze, talvolta bocciature, altro che promozioni regalate! A fronte di bravissimi professori, altri, non pochi, evitano di interrogarsi sul perché quell’alunno non apprenda: è più facile, più comodo, pensare che non studi. Molti ragazzi con DSA, al contrario, passano l’intera giornata chini sui libri e fino a quando non avranno trovato gli strumenti e il metodo di studio corretti non riusciranno a decollare, ad avere risultati proporzionali ai propri sforzi. Cambiando prospettiva, D’Angelo non dice invece che molto spesso i docenti non fanno nulla per insegnare l’uso degli strumenti e un corretto metodo di studio ai loro studenti, né mettono in discussione il proprio metodo d’insegnamento. Come quei professori che descriveva con sarcasmo Dickens nel 1854, due secoli fa, in “Tempi difficili”: quelli che considerano gli alunni come vasi in cui riversare il loro indiscutibile sapere. E non basta il dramma delle “classi pollaio” a giustificare un’indifferenza tenace agli effetti prodotti da un modo meccanico di trasmettere la conoscenza.
Per chiudere, nell’articolo non poteva mancare la chicca sul proliferare ingiustificato delle diagnosi che crescono con il progredire del ciclo scolastico.
Un dibattito su cui andrebbe messa la parola fine una volta per tutte. Esistono false certificazioni? Chi lo scrive, dev’essere in grado di dimostrarlo: un medico o uno psicologo che dichiarano il falso commettono un reato penale. A parole si può dire tutto e il contrario di tutto. Ma le prove? L’incidenza dei DSA nel mondo della scuola, pari al 4,9 per cento, è invece in linea con le stime del DSM 5 (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders) che calcola tra il 5 e il 10 per cento della popolazione coloro che hanno un disturbo specifico dell’apprendimento.
L’aumento delle certificazioni dalla primaria alla secondaria di secondo grado, come i genitori ben sanno, è dovuto all’incremento del carico di studio, ai libri sempre più voluminosi, alla difficoltà maggiore delle materie e del contenuto dei testi. I ragazzi che prima riuscivano con grande fatica a compensare e quindi a nascondere il disturbo, a un certo punto non ce la fanno più.
Il Consiglio Direttivo di Associazione Italiana Dislessia
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