Non solo precarie, pagate meno e poco sostenute: adesso si scopre anche che il 20% delle donne italiane sono anche costrette a lasciare il lavoro a seguito del parto. A sostenerlo è il servizio studi della Camera, che a cavallo tra il 2023 e il nuovo anno ha pubblicato i dati aggiornati sull’occupazione femminile in Italia, con un focus sul quarto trimestre del 2022.
Partendo dal preoccupante dato dell’Italia fanalino di coda nell’Ue per il tasso di occupazione femminile, i ricercatori di Montecitorio hanno confermato nel dossier “una serie di profili critici”: messo a confronto con il contesto europeo, il tasso di occupazione femminile in Italia, infatti, “risulta essere quello più basso tra gli Stati dell’Ue”, addirittura “di circa 14 punti percentuali al di sotto della media” (il 55%, a fronte del 69,3% dell’Unione europea).
A livello nazionale si registra invece in particolare “un divario nel rapporto tra la popolazione maschile e quella femminile nel mondo del lavoro“: le donne occupate sono circa 9,5 milioni, contro i 13 milioni di maschi occupati.
Il settore scolastico, dove i diritti del lavoratore (a prescindere dal sesso) risultano tutelati, risulta da sempre in controtendenza: le donne, infatti, risultano maggiormente rappresentate in tutti i profili professionali della scuola, arrivando a superare l’81 per cento tra gli insegnanti, e toccando il 99% tra le maestre della scuola d’Infanzia.
Dal dossier è emerso che una donna su cinque fuoriesce dal mercato del lavoro a seguito della maternità: si tratta di un dato di non poco conto, poiché parliamo di almeno due milioni di donne. Una circostanza particolarmente grave, se solo si pensa che in questo modo si penalizza chi garantisce il ricambio generazionale in un Paese dove i tassi di natalità hanno toccato livelli bassi come non mai.
L’aspetto che, si fa notare, “riveste una particolare rilevanza in quanto indice della difficoltà per le donne di conciliare esigenze di vita con l’attività lavorativa”.
La decisione di lasciare il lavoro è infatti determinata per oltre la metà del sesso femminile, (52%), da esigenze di conciliazione e per il 19% da considerazioni economiche.
L’alto livello di istruzione, però, salvaguarda le donne dalla perdita del lavoro a seguito del loro nuovo status di madri: un titolo di studio elevato, si legge nelle conclusioni dello studio, “si conferma fattore protettivo per l’occupazione delle donne con figli piccoli”.
La conseguenza è che quando il livello di istruzione è elevato, la differenza occupazionale tra madri e non madri risulta molto bassa.
Quello che emerge in modo netto è poi che l’occupazione femminile risulta caratterizzata da “un accentuato divario retributivo di genere”.
Gli ultimi dati Eurostat, non a caso, ci dicono che il gap retributivo medio (la differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne) è pari al 5% (al di sotto della media europea che è del 13%), mentre quello complessivo (la differenza tra il salario annuale medio) si colloca al 43% (al di sopra della media europea, che è invece pari al 36,2%).
Nel 2022 la retribuzione media annua è risultata “costantemente più alta” per gli uomini, evidenzia lo studio citando i dati dell’Inps: 26.227 euro annui per gli uomini contro i 18.305 euro per le donne, con una differenza di 7.922 euro.
In generale, quindi, la bassa partecipazione al lavoro delle donne sembra dovuta a diversi fattori: l’occupazione ridotta, in larga parte precaria, in settori a bassa remuneratività o poco strategici e una netta prevalenza del part time, che riguarda poco meno del 49% delle donne occupate (contro il 26,2% degli uomini).
L’ultima criticità riguarda i servizi: se è vero che potrebbero aiutare le donne a conciliare i tempi di vita con quelli del lavoro, come l’assistenza all’infanzia, la realtà italiana ci dice che di base scarseggiano, ma anche che non sempre vengono utilizzati.
Emblematica è l’offerta dei nidi: pur risultando in ripresa dopo la pandemia (con un incremento di 1.780 posti rispetto al 2020), “le richieste di iscrizione sono in gran parte insoddisfatte, soprattutto nel Mezzogiorno“.
Con una penalizzazione maggiore per le “famiglie più povere, sia per i costi delle rette, sia per la carenza di nidi in diverse aree del Paese”.
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