I ragazzi italiani dopo il diploma non sanno che fare: il motivo? Il sistema scolastico e accademico che spesso fa corto circuito e che lascia dietro di sé una scia di sfiduciati, come gli oltre 2 milioni di Neet, giovani che non studiano né lavorano.
Cosa non va, allora? Secondo Skuola.net in Italia si studia poco, come conferma l’OCSE: solamente il 18% degli italiani si laurea (contro una media 37% dell’intera area OCSE). Ma, ancora più allarmante, è il fatto che 1 ragazzo su 4 (ma al Sud si raggiungono picchi drammatici) abbandona la scuola o il percorso di formazione prima dei 18 anni.
Tuttavia, per paradosso, in Italia si studia troppo e male: si chiama overeducation. In altri termini ci si laurea, magari a pieni voti, e si finisce a campare grazie a lavoretti saltuari o lontani dal proprio profilo formativo.
L’altra faccia della medaglia di questo discorso è il cosiddetto mismatch: tante aziende cercano profili lavorativi che, però, il mercato non è in grado di dargli.
E allora occorre fare incontrare domanda e offerta, mentre, a causa forse di un scarso orientamento, gli istituti professionali non vengono scelti così come avviene sulle scelte universitarie: 1 matricola su 3 opta per percorsi umanistici, non sapendo che la disoccupazione lo attenderà a braccia aperte a meno che non decida di mirare, una volta giunto sul mercato del lavoro, a quegli ambiti in cui gli umanisti sono richiesti.
Filosofi, linguisti, giuristi, antropologi sono estremamente appetibili per quelle applicazioni tecnologiche in cui la macchina deve svolgere il ruolo dell’uomo dal punto di vista cognitivo, decisionale e linguistico.
Infine tutto il grande capitolo che va sotto il nome di soft skills, le competenze trasversali, vera chiave di volta per chi vuole trovare (e soprattutto mantenere) i lavori più stimolanti.
Qualità come la flessibilità e l’adattamento, la capacità di operare in team, la voglia di mettersi continuamente in gioco, il problem solving. Tutto in un’ottica di apprendimento e crescita che deve accompagnarci per tutta la vita, solo così si sopravvive in un’arena competitiva come quella del lavoro nel terzo millennio.
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