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È morto Jimmy Carter: il presidente che da giovane frequentava scuole di soli bianchi, ma i suoi migliori amici erano afro-americani

Jimmy Carter è morto: il 39esimo presidente americano, riuscito nel 1978 nella missione impossibile di un accordo tra Egitto e Israele e insignito nel 2002 del premio Nobel per la pace, se ne è andato a 100 anni nella sua casa in Georgia. E’ stato il più longevo dei presidenti degli Stati Uniti. Fino all’ultimo, malgrado fosse malato da tempo, è stato attivo e lucido per perseguire le sue convinzioni, a partire da quelle politiche: all’inizio dell’autunno scorso, quando aveva capito che non aveva ancora più tempo, disse che avrebbe voluto “vivere quanto basta per votare Kamala Harris” in corso per la Casa Bianca.

James Earl Carter Jr. era nato nel 1924 nella piccola Plains: il padre era proprietario di un campo di arachidi, la madre era invece un’infermiera che aveva sfidato la segregazione razziale per aiutare le donne di colore.

Nel 1941 Jimmy fu il primo della sua famiglia paterna a finire il liceo: era iscritto in una scuola per soli bianchi, ma i suoi due migliori amici erano afro-americani.

Nel 1977, ricorda l’Ansa, raccolse da Ford il testimone della presidenza, dove portò i suoi principi: lavoro sodo, forte senso del dovere, profonda fede in Dio, eguaglianza e dignità.

Alla Casa Bianca, il democratico Carter restò solo per un mandato, stretto tra i repubblicani Gerald Ford e Ronald Reagan: erano anni difficili per l’America, in piena crisi energetica e recessione.

Approdato nel 1977 alla Casa Bianca da governatore della Georgia, Carter non aveva avuto la vita facile una volta eletto presidente. Aveva governato l’America in un periodo di gravi emergenze in patria e nel mondo, tra cui la crisi degli ostaggi in Iran: la percezione che non fosse stato in grado di gestirle ne provocò nel 1980 la sconfitta elettorale. Come peraltro George H.W. Bush, da lui silurato dal posto di direttore della Cia e che poi si era preso la rivincita come vice nel ticket con Reagan, anche Carter se ne è andato dal mondo con un giudizio della storia più benevolo di quando aveva lasciato la Casa Bianca: tornato a occuparsi di filantropia e politica estera, il presidente degli accordi di Camp David nel 2002 fu appunto insignito del premio Nobel per la pace.

Uno dei momenti emblematici del suo difficile mandato si realizzò del 4 luglio 1979: tra file interminabili alle pompe di benzina, il presidente, che doveva parlare alla nazione, si dileguò per riemergere dieci giorni più tardi con il “discorso del malessere”: una sorta di sermone in cui avvisò di “una crisi di fiducia, che colpisce al cuore la volontà nazionale” e che per lui fu un boomerang.

Anche sulla politica estera non ebbe vita facile: dopo i successi dell’accordo Salt II con l’Urss e la stretta di mano di Camp David, l’invasione dell’Urss in Afghanistan provocò un ritorno al clima della guerra fredda.

L’ultima crociata, come capo del Carter Center, era stata all’insegna della pace: un appello a Barack Obama per il riconoscimento della Palestina.

Carter ha passato gli ultimi due anni della sua lunga vita nella residenza di Plains, protetto da cure palliative, dopo aver rinunciato a più aggressivi interventi medici. Un lungo addio turbato dalla morte della compagna di 77 anni, la moglie Rosalynn a cui lo scorso novembre aveva dato l’estremo saluto nella chiesetta battista dove per anni l’ex prima coppia aveva salutato fedeli e ospiti alcuni molto famosi.

Curato con l’immunoterapia dopo la diagnosi di un tumore al cervello, Jimmy Carter ha chiuso la vita impegnandosi a far del bene: costruendo case per poveri e insegnando religione. Un misto di riflessioni sul Vangelo e ricordi di antica diplomazia, le lezioni nella piccola chiesa battista di Plains avevano attirato domenica dopo domenica centinaia di pellegrini per i quali il messaggio dell’anziano predicatore aveva rappresentato l’antidoto ai veleni della politica che si vedevano ogni giorno in tv.

Alessandro Giuliani

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