Tra le linee guida della riforma della scuola, anzi della buona scuola, spunta la patente a punti per gli insegnanti. Ma a cosa servirebbe questa patente in cui verranno raccolti i crediti didattici, formativi e professionali di ogni docente? Servirà, come è scritto nel patto educativo tra Renzi e la scuola, a far uscire i docenti dal “grigiore” dei trattamenti indifferenziati. Servirà anche a liberarci da quella standardizzazione che, negli ultimi decenni, inevitabilmente ha significato competizione al ribasso e frustrazione di riflesso. Quindi ecco arrivare il merito sotto la forma di raccolta di crediti didattici, formativi e professionali.
Ma questo basterà davvero a fare uscire i docenti da quello stato, che al governo piace chiamare, di frustrazione di riflesso? Francamente non pensiamo proprio che una patente a punti possa differenziare, in modo oggettivo e corretto, i docenti di una stessa scuola.
Resteranno sempre quelle differenze tra discipline oggettivamente più complesse ed elaborate e discipline più leggere e meno impegnative sul piano didattico. Ci saranno sempre docenti che avranno carichi di lavoro considerevoli, come quello di preparare elaborati scritti e correggere centinaia compiti, ed altri che in modo più spensierato e leggero potranno impegnarsi a raccogliere crediti per fare carriera. Ma bisognerebbe comprendere che se i docenti non sono tutti uguali, anche le materie da insegnare non lo sono.
Se l’egualitarismo non è accettabile tra docenti non può essere accettabile nemmeno tra le discipline d’insegnamento. Invece per il governo è fondamentale creare il dislivello tra insegnanti.
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Infatti per quanto è scritto nelle linee guida della riforma, occorre, prima di ogni altra cosa, un nuovo status giuridico dei docenti che consenta incentivi economici basati sulla qualità della didattica, a prescindere dalla materia d’insegnamento, la formazione in servizio, a prescindere dalla qualità della formazione, il lavoro svolto per sviluppare e migliorare il progetto formativo della propria scuola, a prescindere dalla bontà del lavoro. Ma dove troveranno il tempo i docenti, e soprattutto quei docenti oberati da carichi di lavoro, come la preparazione delle lezioni, la preparazione delle verifiche, la correzione delle verifiche stesse, gli impegni obbligatori delle attività collegiali, per acquisire crediti didattici, formativi e professionali?
Hanno pensato anche a questo i nostri governanti: ecco spuntare le banche ore. Ma cosa sono le banche ore? Sono quel gruzzolo di ore che ciascun docente “guadagna” (e che così “restituirà” alla scuola) nelle giornate di sospensione didattica deliberate ad inizio anno dal Consiglio d’istituto. Si tratta di un certo numero di ore, sembrerebbe circa 10, che il docente dovrà dedicare per la scuola senza avere alcuna remunerazione economica, ma soltanto credito didattico. Tutti i crediti didattici, formativi, e professionali faranno parte del portfolio del docente, che sarà in formato elettronico, certificato e pubblico. In buona sostanza il docente dà disponibilità oraria per attività didattiche aggiuntive e anziché essere retribuito in soldi, avrà il suo bel credito didattico per fare carriera. In buona sostanza il docente deve lavorare di più per aspirare ad avere riconosciuti dei crediti certificati che potrebbero farlo avanzare in carriera.
Ma tutti, se lavorano di più, avranno un avanzamento di carriera? La risposta è no! Soltanto il 66% di tutti i docenti di ogni scuola (o rete di scuole) avranno diritto ad uno scatto di retribuzione, e solo ogni 3 anni. Si tratta dei due terzi che avrà maturato più crediti nel triennio precedente. Il valore dello scatto triennale sarà sempre lo stesso ma modulato in quantità diverse su tra fasce di merito a seconda dei punti acquisiti per i crediti.
Insomma bisognerà cercare di fare man bassa di crediti didattici, formativi e professionali! Altrimenti non si farà carriera e si rimarrà con uno stipendio da fame.
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