È la domanda che sta girando, più o meno sotterranea, sorpresi della recrudescenza del linguaggio, delle parole forti, anche delle offese.
Mi pare che la risposta, purtroppo, non lasci dubbi. Non è possibile, cioè, alcuna forma di dia-logo, nel senso di un “logo” che possa essere con-diviso, oggetto di comune ricerca. I classici ci hanno insegnato che, perché dialogo sia, si devono trovare dei punti di partenza condivisi, altrimenti non c’è dialogo, ma solo dei mono-loghi. Cioè dialogo tra sordi.
Se poi leggiamo che i giornali e la tv sono manipolati, i giornalisti dei venduti, con le teorie del complotto del solito Fusaro (seguace di un marxismo anarchico, ma con venature nazionaliste: tradizione tragica nella storia del 900), che è cioè tutta una montatura per una nuova forma di schiavitù, che è in atto una dittatura sanitaria, allora anche parlare di dialogo è una perdita di tempo.
Pensiamo ad Agamben, il pensatore del ponderoso percorso dell’”homo sacer”, che parla di uso politico della pandemia dopo aver negato che vi sia una pandemia, o al Cacciari sgarbizzato dalla lucetta rossa televisiva. Da loro sarebbe giusto pretendere, e non solo chiedere, un preliminare uso pensante delle parole.
Eppure non c’è alternativa al dialogo, se non lo scontro. Perché la società democratiche non vive di paure, come hanno preteso da Hobbes ad Heidegger, ma da quella che Aristotele chiamava “amicizia”. Ma il dialogo va supportato dalla convinzione che nessuno é uno strumento di chissà quale tecnoscienza, o potere occulto. Se c’è rispetto reciproco, se c’è solidarietà, si sviluppa un pensiero positivo, non negativo.
Mentre le ideologie, che sono delle fedi tutte umane, pretendono di avere la verità in tasca, mentre, come nella sindrome di Stoccolma, l’ideologia dà solo l’illusione di una libertà mentre si è chiusi in gabbia da una pretesa visione del mondo.
In una società aperta, non di ideologie abbiamo bisogno, ma da pensiero pensante, fatto di disponibilità, capacità di ascolto, senso della ricerca, gusto della scoperta, fatica del concetto.
I social hanno, poi, amplificato tutto, e la rete ha sostituito, purtroppo, i percorsi di ricerca. Lo dico scherzando, ma quasi quasi non serve più laurearsi, studiare, andare a scuola e all’università, sostenere esami, essere valutati.
E se è un medico che si dice novax? Credo che dovremmo tutti approfondire lo sfondo epistemologico di tutte le discipline, con una particolare sottolineatura sulla metodologia della ricerca. Insomma, l’ideologia, che può risucchiare chiunque, esclude il dialogo.
È una visione del mondo, delle cose, della vita per cui, prima ancora di entrare in contatto con la realtà, attraverso le sue tante facce, si pretende di sapere già come stanno le cose.
Si sa tutto. Con risposte già prefabbricate, per cui non c’è domanda o indizio che possano scalfire la pretesa certezza assoluta. Mentre la realtà è problematica, chiede e pretende i tanti “perchè”, come ci insegnano ogni giorno i bambini, e come siamo chiamati tutti a praticare, seguendo la via della conoscenza.
I dubbi, cioè, su tutto ce li abbiamo tutti, ma sappiamo anche che dobbiamo superarli, non assolutizzarli. Se la realtà è comunque problematica, l’ideologizzato invece pre-tende che non sia problematica, ma sia ad un sola faccia. Problematica vuol dire: domandare tutto, perché, in fondo, tutto è domanda, in vista di tentativi, anche fragili, ma aperti, di risposta.
La vita cioè come ricerca. E questo è un input conoscitivo ma anche un imperativo etico. Ovviamente, nel sacro rispetto per le persone, ma con una certa indignazione per gli errori. Anzitutto propri. La vita come ricerca, con l’aiuto insostituibile del metodo elenctico, confutatorio, di socratica memoria.
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