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È sempre più Italia a due velocità: al Sud non basta nemmeno più la laurea per trovare lavoro

I dati Almalaurea confermano un divario sempre maggiore, con il tasso di occupazione tra chi ha terminato l’Università che al Settentrione supera ampiamente il 50% mentre nelle regioni meridionali si ferma al 35%. Differenze ampie anche per gli stipendi.
Il gap ha origine nella differenza di investimenti tra le diverse aree del Paese, ma anche nelle capacità diversificate del tessuto industriale di accogliergli. Per cambiare strada occorre potenziare gli investimenti e riprogrammare da subito il sistema produttivo attorno alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio culturale.
Si allarga sempre più la forbice tra nord e Sud. Almeno su formazione e opportunità lavorative. I dati emessi nelle ultime ore da ‘Almalaurea’ indicano un “aumento di due punti percentuali rispetto a quanto rilevato nella precedente indagine del consorzio: il tasso di occupazione si attesta, infatti, al 52,5% tra i laureati del Nord, dove il 17% continua ancora gli studi, mentre si ferma al 35% al Sud e ciò indipendentemente dalla sede universitaria e delle facoltà dove i giovani hanno compiuto i propri studi.
Inoltre, laurearsi oggi al Sud significa probabilmente guadagnare meno soldi. La ricerca di Almalaurea ha registrato degli stipendi netti dei laureati al Nord (1.086 euro) decisamente più alto rispetto ai “colleghi” freschi di titolo di ‘dottore’ delle regioni centrali (1.001 euro) e soprattutto di quelli che hanno raggiunto l’ambìto titolo universitario nel Mezzogiorno (900 euro).
Anche lo Stato, che per decenni ha rappresentato un punto fermo della forza lavoro, non riesce più a recepire laureati. Una recente indagine nazionale, sempre realizzata da Almalaurea, ha rilevato che appena l’11% dei “dottori” con laurea specialistica, oltre il triennio, a un anno dal conseguimento del titolo di studio lavora nella pubblica amministrazione. A fronte dell’83,5% che opera nel privato, cui va aggiunto il restante 5,5% occupato nel non profit.
Secondo Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, “questi dati confermano che l’Italia viaggia sempre più a due velocità: al punto che nemmeno il titolo di studio più elevato, la laurea, riesce a garantire il posto di lavoro. Il gap di quasi 20 punti percentuali parla da solo. Ci sono comunque alcune considerazioni da fare. La prima è che il divario ha origine nella differenza di investimenti tra le diverse aree del Paese. Vale per tutti l’esempio di quanto è accaduto in Sicilia nel 2012, dove la mancanza di risorse e di mense scolastiche ha prodotto un tempo pieno nella scuola primaria solo per il 3 per cento degli alunni. Nello stesso anno il tempo pieno in Lombardia era presente nel 90 per cento delle scuole primarie”.
“C’è poi il problema della diversa ricezione degli investimenti, a causa del differente tessuto industriale. Un caso per tutti è quello dei tentativi mancati per una formazione più di qualità. Basti pensare – sostiene il sindacalista Anief-Confedir – all’abbattimento dei fondi destinati a combattere l’abbandono scolastico. Ma anche alle promesse mai mantenute su un migliore orientamento per le iscrizioni successive alla licenza media e dell’obbligo formativo da posticipare fino a 18 anni. Oppure al mancato decollo dell’apprendistato”.
“In queste condizioni – continua Pacifico – è normale che le zone tradizionalmente più in difficoltà vadano ancora più a fondo. E non riescono più a reggere il passo. Perché è storicamente provata la forte associazione tra povertà, bassi livelli di istruzione, modesti profili professionali ed esclusione dal mercato del lavoro. Non è una sorpresa, quindi, scoprire che al Meridione vi sono i più alti tassi di abbandono scolastico in età di obbligo formativo. Con il risultato che negli ultimi cinque anni tra il Sud e le Isole si sono persi 150mila alunni – con Molise, Basilicata e Calabria che accusano riduzioni tra il 7% e il 9% – mentre al Nord c’è stato un incremento di 200mila iscritti”.
Il sindacato torna quindi ad esortare le forze governative a riprogrammare il sistema produttivo nazionale attorno alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio culturale. Il fine è promuovere un’economia durevole in un settore privo di concorrenza. E che al Sud può dire la sua. Ma per farlo occorre finalmente integrare il settore pubblico con il privato, affidando la ‘cabina di regia’ a tutti gli attori e i settori dell’economia italiana: industrie, artigianato, agricoltura, parti sociali, banche, chiese e vi dicendo. Ma anche recuperando il patrimonio esistente: per puntare alla creazione di parchi e percorsi tematici, musei. In modo da creare o potenziare la ricettività turistica correlata. E riuscire, nel contempo, a cominciare ad assorbire almeno una parte di quel 65% di laureati che a distanza di anni dal conseguimento del titolo rimane ancora disoccupato.
 
 
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