Sottoscritto lo scorso 20 maggio dal Ministro dell’Istruzione e da cinque dei sei sindacati rappresentativi, il Patto per la scuola è un documento negativo e fortemente ambiguo per quello che non dice ma lascia intendere. I suoi riferimenti normativi sono il PNRR e il Patto per l’innovazione del lavoro pubblico. Non vi è traccia, invece, di una visione storico – culturale, una concezione, un’idea di come e perché le future generazioni potranno concepire, valutare, rispettare, valorizzare l’immenso patrimonio culturale italiano.
Il Patto accenna a future riforme epocali (riforma costituzionale della scuola, un nuovo modello istituzionale e organizzativo-gestionale, riforma degli Organi collegiali, nuovo Testo Unico sulla scuola…), riforme che, nonostante siano espresse con un linguaggio politicamente corretto, suonano minacciose e reazionarie nella loro vaghezza. Il Patto per la scuola tace sul ruolo dell’Invalsi, il quale invece appare in uno dei punti del PNRR: in una prima redazione del PNRR si parlava di obbligatorietà dell’Invalsi, trasformatasi poi in “consolidare e rendere generale l’uso dei test PISA/INVALSI“.
Il Patto per la scuola esordisce – senza un benché minimo bilancio sulla giustezza o meno delle chiusure delle scuole attuate in questi due anni e sulle loro conseguenze sui giovani – con il poco convincente ottimismo di “valorizzare come opportunità di profonda innovazione l’esperienza vissuta durante il periodo pandemico“. Da qui la retorica che veicola le vere intenzioni del documento nei confronti della controparte sindacale: “un nuovo modello culturale è alla base di una nuova organizzazione del lavoro nelle scuole e di ogni capacità di utilizzare l’innovazione tecnologica per il miglioramento del benessere collettivo“.
Viene ribadito che il modello scolastico alla base della scuola pubblica italiana è sempre quello delle competenze e delle abilità ma questo modello non è certo una novità e, invece di darlo come postulato, sarebbe più corretto verificarne la validità nei risultati di questi anni recenti. Appare chiaro che il Patto per la scuola, oltre ad auspicare/presupporre un “modello istituzionale e organizzativo-gestionale” in cui i sindacati sono chiamati al consenso, si muove in una concezione delle scuola vecchia ormai di qualche decennio: la scuola delle competenze, il dissidio insanabile fra “autonomia” e “cabine di regia”, la sopravvalutazione manageriale della dirigenza.
Strategicamente, vengono ripetute parole e concetti di per sé condivisibili, come inclusione, centralità del docente, libertà d’insegnamento, continuità didattica, eliminazione del precariato, riduzione del numero degli alunni per classe, adeguamenti stipendiali, edilizia scolastica. Ma è forte la sensazione di annuncio opportunistico e di svuotamento di questi stessi concetti che avrebbero potuto essere già stati messi in pratica, come richiesto dalle ormai storiche mobilitazioni Cobas e addirittura dai due anni di emergenza sanitaria (es. gli organici, l’edilizia scolastica).
Come si vede, ancora una volta, siamo di fronte a scelte ministeriali che ostinatamente investono denari nelle apparecchiature tecnologiche e non nel lavoro del personale docente e ATA, nei sistemi di quantificazione e controllo dell’Invalsi e non nella libertà educativa e formativa sempre nuova e sempre diversa, non utilitarista (come devono essere scuola e ricerca), che produce vera formazione e vera cittadinanza, e quindi vera ricchezza, questa sì davvero spendibile ed economicamente utile. Scelte ministeriali che faranno soffrire giovani generazioni appiattite su modelli di efficientismo o di inadeguatezza.
Ma il più grave aspetto di fondo è che, nel momento in cui si parla presuntuosamente di “un nuovo modello culturale alla base di una nuova organizzazione del lavoro nelle scuole e di ogni capacità di utilizzare l’innovazione tecnologica per il miglioramento del benessere collettivo” il concetto cardine sia impresa, e non si faccia menzione di altri concetti davvero pertinenti alla formazione e all’educazione: mi riferisco al concetto di patrimonio culturale. Ciò dimostra, se ce ne fosse bisogno, che i consulenti del Ministero continuano ad essere Fondazione Agnelli e simili. Se si vuole davvero cambiare l’Italia, è un’idea forte di patrimonio culturale che deve alimentare l’azione delle istituzioni scolastiche affinché questo patrimonio diventi appartenenza e conoscenza delle giovani generazioni, le quali sapranno meglio di noi farne buon uso e trarne frutto.
Lorenzo Perrona – Redazione rivista COBAS
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