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Quando Eco scriveva: “Riformiamo il Liceo classico, ma non aboliamolo”

Il 28 novembre 2014, su L’Espresso, Umberto Eco, scriveva così sul futuro del liceo classico. Parole sempre attuali.

Le riproponiamo integralmente:

Il 14 novembre si è svolto a Torino un pubblico processo (presieduto da un magistrato come Armando Spataro) il cui accusato era il liceo classico. Il pubblico ministero, Andrea Ichino, con dovizia di testimonianze e statistiche, ha presentato queste accuse: uno, non è vero che il classico prepara meglio anche a studi e professioni scientifiche; due, chi intraprende studi esclusivamente umanistici rischia di avere una cognizione parziale e quindi distorta della realtà (ma Ichino ha lealmente ammesso che questo può accadere anche a chi intraprende studi esclusivamente scientifici e tecnici); tre, il liceo classico nasce da una riforma fascista, quella di Gentile. Alla fine la corte ha pienamente assolto il liceo classico, forse perché le accuse erano formulate in modo troppo perentorio. Per esempio, testimoni illustri hanno dimostrato che la riforma Gentile riprendeva precedenti riforme di carattere liberale ed era risultata invisa agli ambienti fascisti. Caso mai la riforma Gentile aveva il difetto di voler formare una classe dirigente orientata su studi eminentemente umanistici, senza dare il dovuto rilievo alle materie scientifiche.

Io ero l’avvocato difensore e nella mia arringa ho dato ragione a molte delle accuse, aggiungendo che il classico di Gentile dava poco spazio non solo alle scienze ma persino alla storia dell’arte, e alle lingue moderne. Quanto alle lingue dette morte, dopo otto anni di latino i maturandi dei miei tempi uscivano dal classico senza essere capaci, in genere, di leggere Orazio a prima vista. Perché non si cerca di insegnare a dialogare in un latino elementare come facevano i dotti europei sino a pochissimo tempo fa? Il maturando classico non deve necessariamente diventare latinista (a questo ci pensa l’università) ma deve essere in grado di capire che cosa è stata la civiltà romana, a identificare le etimologie, a capire le radici latine (e greche) di molti termini scientifici, e questo si può ottenere anche abituandolo a leggere il latino ecclesiastico e medievale, molto più facile e familiare. E addestrando a fare utili comparazioni tra il lessico e la sintassi del latino e quelli delle lingue moderne. E quanto al greco, perché impegnare lo studente su Omero, ostico anche per gli specializzati, e non incoraggiarlo a fare traduzioni sul greco ellenistico, per esempio sui libri naturali di Aristotele, lavorando su quella lingua che sapeva parlare anche Cicerone?

Si potrebbe pensare a un liceo umanistico-scientifico, dove non scompaiano le materie umanistiche. Ricordavo che Adriano Olivetti, pioniere nella costruzione dei primi computer, assumeva ovviamente ingegneri e i primi geni dell’informatica, ma anche brillanti laureati che magari avevano fatto una tesi da centodieci e lode su Senofonte. Aveva capito che gli ingegneri sono indispensabili per concepire lo “hardware”, ma che per inventare nuovo “software” (ovvero i programmi) occorreva una mente educata sulle avventure della creatività, esercitatasi su letteratura e filosofia. E mi chiedevo se tanti dei giovani che inventano oggi nuove “app” (e riescono benissimo in professioni che prima non esistevano) non vengano proprio da una formazione umanistica.

Ma non penso solo all’informatica. Avere un’educazione classica significa anche saper fare i conti con la storia e con la memoria. La tecnologia sa vivere solo nel presente e dimentica sempre più la dimensione storica. Quello che ci racconta Tucidide sulla vicenda degli ateniesi e dei Meli serve ancora a capire molte vicende della politica contemporanea. Se Bush avesse letto dei buoni storici (e ce n’erano nelle università americane) avrebbe capito perché, nell’Ottocento, inglesi e russi non erano riusciti a controllare e dominare l’Afghanistan.

D’altra parte i grandi scienziati come Einstein avevano una solida cultura filosofica alle spalle, e Marx aveva esordito con una tesi su Democrito. Riformiamo, dunque, ma conserviamo il liceo classico perché consente di immaginare quello che non è stato ancora immaginato e questo distingue il grande architetto dal palazzinaro.

Redazione

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