Sapere, saper fare, saper essere. Quale docente, almeno di una certa età, non ha frequentato (spesso costretto) corsi relativi ai traguardi formativi e educativi della scuola, in cui eccellevano tali ‘obiettivi’ indispensabili per la sua attività didattica?
Tra queste il ‘saper essere’ veniva presentato come la meta più faticosa da raggiungere per i ragazzi , ma anche la più importante. Solo conquistando tale tipologia di ‘sapere’, il giovane poteva arrivare ad una formazione integrale, aveva gli strumenti per costruirsi e, al contempo, scoprire la sua ‘identità’ e possedere le capacità di ‘elevarsi’ a quella ‘intelligenza sociale’ che, sola, permette di essere una persona ‘educata’ e un ‘cittadino responsabile’, pienamente e attivamente impegnato nella società, in grado di offrire, con la parola e l’esempio, valori costruttivi, di interagire positivamente con la propria comunità e operare altruisticamente per migliorare se stesso e gli altri. Insomma, dietro la formula ‘saper essere’, si indicava, nel particolare, il compito essenziale della scuola: educare (oltre a istruire). Sì, perché la scuola (nonostante il pensiero di qualche intellettuale poco preparato sull’argomento) non ha solo il compito di istruire (di far apprendere una serie di nozioni su una determinata materia), ma anche e soprattutto di educare (promuovere con l’insegnamento e l’esempio lo sviluppo delle facoltà intellettuali, estetiche e delle qualità morali di una persona, indirizzarla al bene, alle virtù, al vivere civile, alla non violenza). Istruire ed educare sono due ‘movimenti’ didattici legati insieme e, direi, sovrapposti. Mentre si istruisce si educa. Si conduce l’allievo a capire la vita e a viverla nel rispetto, nella comunione e nell’amore verso il prossimo.
Certo l’ultima frase ha un ché di ‘retorico’ e i tratti di un desiderio difficilmente irrealizzabile. Particolarmente in questo periodo segnato da scontri forti e crudeli violenze verbali e fisiche. Ma allora la scuola dovrebbe rassegnarsi agli eventi o, invece, implementare la sua azione educatrice tesa alla comprensione reciproca, alla pazienza, alla non-violenza e alla pace? Tenuto conto (con tristezza) che, spesso, è la società che condiziona o influenza la scuola, non ci si può arrendere e soltanto cercare di sopravvivere ma, pur consapevoli della difficile sfida, tentare di arginare la violenza e la brutalità intervenendo proprio nei percorsi formativi ed educativi.
In realtà ogni materia scolastica, nel suo naturale svolgimento, può educare a quel ‘saper essere’ che porta a essere veri cittadini: donne e uomini razionali e civili, conoscitori dei loro diritti e dei doveri, sensibili, aperti, accoglienti e ben consapevoli che una società, per poter vivere pienamente, ha bisogno non solo di regole ma anche di ‘amore’, di affetto, di buoni e generosi sentimenti.
Ma se ciò non è sufficiente (e così pare) occorre cambiare o modificare qualcosa nelle attività scolastiche. Così, per arginare una ‘certa’ violenza dilagante, si è pensa di introdurre nelle scuole una nuova disciplina: educazione alla affettività, con l’intento di favorire a partire dalla consapevolezza delle proprie emozioni, sensazioni e sentimenti, una buona relazione interpersonale. Al momento il progetto è ancora in ‘fieri’, sembra, però (ed è una buona notizia) che si eviterà l’errore dell’educazione civica (mai rimosso, anzi accresciuto). Potremmo anche parlare di quel ‘pasticiazzo’ dell’educazione alla cittadinanza (un insieme confuso e raccogliticcio di ore su argomenti sostanzialmente generali). Neppure si creerà una nuova cattedra (Educazione all’affettività) che renderebbe troppo pesante i piani di studi, in generale già fin troppo gravosi. Saggiamente non si tenderà, così pare, a far diventare i docenti esperti (solo sulla carta) in relazioni interpersonali con qualche breve corso on-line (sarebbe certo la soluzione peggiore). Ci si starebbe orientando, dicitur, per una serie di interventi sull’affettività da parte di esperti specialisti. Probabilmente la scelta più sensata. A questo punto non possiamo tacere tre considerazioni (quasi domande).
Siamo sicuri che qualche ora annuale di educazione all’ “amore” possa trasformare la violenza presente negli animi in un desiderio di bontà? Da un ‘cuore di pietra ad un cuore di carne’ (forse si spera troppo e ci si illude)?
Pensate che, oltre alla scuola, anche tutte le altre fonti di informazione della società dovrebbero apportare dei correttivi nei modi con cui si rivolgono alle persone e nei contenuti (contenuti spesso troppo violenti e tragici, sarà la ‘catarsi’ aristotelica?) o no?
Non ritenete che i genitori (secondo Costituzione) dovrebbero, in sinergia con le Istituzioni, essere le prime ad istruire e educare i figli? Tutti i genitori svolgono correttamente il loro difficilissimo ruolo o lasciano tutto alla scuola (per mille motivi, anche giustificabili e comprensibili)?
Altre considerazioni e domande sarebbero superflue. I dubbi rimangono ma sarebbe grave errore restare fatalisticamente inoperosi.
Da parte mia proporrò ai ragazzi valide letture dedicate all’amore e alla non violenza.
Ultimamente, poi, sto riprendendo in mano “L’arte di amare” (Erich Fromm). Una mia lettura giovanile. Certo esistono altri libri più moderni e più adatti ai ragazzi di oggi che educano alla pace e all’affettività interpersonale. Basta leggerli. Non sfogliarli, leggerli bene.
Andrea Ceriani