Home Alunni Educare all’attesa in un mondo iperconnesso che reclama tutto e subito

Educare all’attesa in un mondo iperconnesso che reclama tutto e subito

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Il tema dell’attesa è uno dei più ricorrenti in letteratura: da Leopardi a Buzzati, da Kafka a Beckett, risalendo fino a Omero, gli esempi sono innumerevoli. L’attesa, nelle arti, ha varie sfaccettature e può veicolare messaggi anche molto diversi l’uno dall’altro: il senso dell’incompiutezza o dell’assurdità dell’esistenza umana, la gioia di un presente destinata a tramutarsi in dolore e altro ancora.

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In pedagogia, al contrario, l’idea di attesa è comunemente assunta come educativa e basilare per lo sviluppo di una serie di qualità sociali nei ragazzi e nelle ragazze. Nel suo saggio “La mente del bambino”, Maria Montessori, ad esempio, sosteneva che in ogni classe di molti bambini ci sarà un solo esemplare di ogni oggetto: se un bambino desidera qualcosa che già è in uso ad un altro, non potrà averlo e aspetterà finché l’altro avrà finito il suo lavoro. Così si sviluppano certe qualità sociali che sono di grande importanza: il bambino sa che deve rispettare gli oggetti che sono adoperati da un altro non perché così gli è stato detto, ma perché questa è una realtà davanti alla quale si è trovato nella sue esperienza sociale. Vi sono tanti bambini e un solo oggetto: l’unica cosa da fare è aspettare.

In questi ultimi anni l’attesa è stata piuttosto considerata come una qualità da recuperare, in un momento in cui moltissimi adolescenti non sanno più cosa significhi aspettare, irretiti come sono dal canto delle sirene di un ‘tutto e subito’ promesso dall’eterno presente dei social e della Rete in generale: già nel 2018 lo scrittore Marco Belpoliti – nel suo articolo ‘Elogio dell’attesa nell’era Whatsapp’ pubblicato su La Repubblica – scriveva che non sappiamo più attendere. Tutto è diventato istantaneo, in “tempo reale”, come si è cominciato a dire da qualche anno. La parola chiave è: “Simultaneo”. Scrivo una email e attendo la risposta immediata. Se non arriva m’infastidisco: perché non risponde? Lo scambio epistolare in passato era il luogo del tempo differito. Le buste andavano e arrivavano a ritmi lenti. Per non dire poi dei sistemi di messaggi istantanei cui ricorriamo: Whatsapp. Botta e risposta.

Qualche giorno fa il quotidiano Avvenire – prendendo spunto dal tempo che la Chiesa Cattolica chiama Avvento, che è il tempo dell’attesa per i cristiani – si chiedeva come allenare al tempo dell’attesa i nostri ragazzi iperconnessi.

Gli adolescenti di oggi – scrive Avvenire – vivono nell’immediato, l’utilizzo permanente di social e web ha abituato questi giovani ad avere, e pretendere, risposte immediate per tutte le domande. L’attesa è un concetto che a loro sfugge. Quando si tratta di “attendere” qualcosa, si scatena in loro ansia e preoccupazione.

A livello didattico, una pratica utile per educare al tempo dell’attesa, potrebbe essere questa, secondo gli esperti interpellati dal quotidiano milanese: quando l’insegnante in classe fa una domanda non dovrebbe pretendere subito una risposta, ma dovrebbe dire: “Adesso pensateci cinque minuti e poi mi darete la vostra risposta”. Il tutto e subito – dobbiamo dirlo ai nostri ragazzi – non paga mai, non contribuisce a sedimentare riflessioni e concetti. Serve un tempo necessario per rielaborare i concetti, per far propria una riflessione, per mettere a fuoco un pensiero e farlo proprio. Ecco perché, a livello educativo, occorre organizzare attività più rispettose dei “tempi di attesa”. E far capire ai ragazzi che se si bruciano questi tempi di attesa ne ricaveremo solo ansia, preoccupazione, confusione mentale. Da qui la necessità di un allenamento all’emotività, l’urgenza di misurare gli impegni a cui chiamiamo i nostri ragazzi. Oggi sono assorbiti da troppe incombenze scolastiche ed extrascolastiche e sono in qualche modo costretti a fare tutto “senza attesa”. Non si tratta solo di una conseguenza del mondo digitale ma anche di organizzazione sociale. E questo va ripensato se vogliamo il bene dei nostri ragazzi.