Il dibattito pubblico intorno al binomio Femminicidio/Patriarcato, se non regolato, commisurato e contenuto in una narrazione corretta ed equilibrata, rischia di trasformarsi in un boomerang emotivo ad alto rilascio emozionale in grado di annientare nel tempo qualsiasi costrutto logico e razionale su cause e concause.
Le tragedie legate al Femminicidio ci intrappolano in un loop temporale: ogni volta si ritorna alla narrazione del prevenire-intervenire-scongiurare: molte donne prima della tregedia hanno denunciato, parlato, urlato, rincorso soluzioni. Forze dell’ordine ed esperti molto spesso sono intervenuti per controllare e monitorare il persecutore e salvaguardare la vita di tante donne. Ma invano. Molte donne, pur lottando con azioni concrete e preventive sono cadute nella trappola del carnefice. In questi giorni la parola chiave che orbita intorno al femminicidio è “patriarcato”. Serve una inversione di marcia su un retaggio culturale (il patriarcato) rimasto incollato ad una cultura post moderna. Un germe, un virus che continua a resistere e a mietere vittime. È questa, più o meno, la narrazione comune a tutte le tragedie legate al femminicidio. Parole come prevenzione, intervento, cultura, dialogo, denuncia, leggi sono i mattoni di un dibattito che corre il rischio di diventare banale, passivo e ridondante, se non accompagnato da azioni dirette ed efficaci.
Una delle azioni adottate dall’attuale Governo è “L’educazione all’affettività”. Come se l’affetto fosse una materia, una disciplina da insegnare a scuola in un’ora. Un intervento che traduce una evidente mossa governativa di azione immediata per debellare una piaga che ha trovato terreno fertile in una società sempre più povera di valori e sempre più vicina all’avere che all’essere. Se si riflette in modo più circoscritto e attento sembra quasi che questa educazione all’affettività promossa dal governo sia quasi una provocazione: il Governo offre un bonus per l’ “Educazione all’affettività”! Un “bonus” orario per un vuoto educativo che serpeggia nelle famiglie e nei giovani da tempo.
I cosiddetti giovani social sono nella stragrande maggioranza il risultato di una emancipazione educativa fuorviante, priva di valori portanti come il dialogo, il rispetto e l’empatia. Nei social vige la legge dell’esserci e lo si vede nei milioni di video accompagnati da storture linguistiche e povertà di contenuti, nei selfie mortali o in quelli vacanzieri di mari, monti, fiumi e laghi costruiti spesso in veri set cinematografici domestici, nei reel artefatti, nelle immagini di Istagram sempre più omologate ai canoni di una bellezza plastica o nelle false narrazioni di vissuti quotidiani. Uno stacco pericoloso dalla realtà che gli esperti denunciano da tempo. Più che educazione all’affettività come strumento di prevenzione, servirebbe invece un intervento ad ampio raggio nei palinsesti televisivi con programmi e contenitori in cui siano protagonisti i giovani, le famiglie, la scuola, le associazioni. L’avvio di seri Progetti nelle scuole volti allo sport, al cinema, alla lettura, al teatro, alla musica. Perché è partendo da un libro, da uno sport, da una canzone che può nascere nel giovane “l’affetto”, l’amore, la passione. La prevenzione non passa per uno spot di propaganda come l’educazione all’affettività. Ma attraverso contenuti veri e occasioni di crescita: è proprio lì che la persona ritrova sé stesso e la propria affettività. Il suo equlibrio emotivo. Il confronto vero con la realtà. E con gli altri.
E poi parliamoci chiaro: sono numerosissimi i femminicidi per mano di uomini adulti o anziani. Servirebbero anche per queste categorie azioni mirate e misure preventive.
Oppure anche per loro ennesimo bonus orario di Educazione all’affettività nelle fabbriche, negli uffici e nelle case…?
Francesca Carone
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