È bene diffidare di chi vede complotti ovunque. Eppure qualche complotto esiste: i giovani vanno educati a riconoscerlo, perché può far molto male alla società, all’ambiente, a noi tutti.
La prossima antivigilia di Natale sarà il centesimo anniversario di un complotto vero, dal quale nacque la cosiddetta “obsolescenza programmata”. Infatti, il 23 dicembre 1924 a Ginevra alcuni businessman si riunirono per decidere qualcosa che avrebbe condizionato un intero secolo di produzione industriale e di consumi. Rappresentavano i colossi della produzione di lampadine elettriche (allora tutte a filamento incandescente): una trentina di aziende, tra cui la francese Compagnie des Lampes, la statunitense General Electric, la tedesca Osram e l’olandese Philips.
La General Electric era nata nel 1892 dalla fusione tra la Edison Electric Light Company (di Thomas Alva Edison, inventore della prima lampadina elettrica, da lui brevettata nel 1880) e la Thomson-Houston Electric Company. La fusione era stata curata da John Pierpont Morgan, fondatore della strapotente banca d’investimento JPMorgan.
Al summit di Ginevra erano insomma presenti i vertici del capitalismo industriale rampante dell’epoca, intervenuti per risolvere un problema: la lunga durata delle lampadine ne faceva vendere sempre meno.
All’epoca, infatti, e fin dal secolo precedente, le lampadine erano fatte di materiali ottimi, e così ben costruite da durare a lungo: dalle 2.000 alle 3.000 ore almeno. Si pensi che ancor oggi è accesa ininterrottamente dal 1901 (123 anni fa) una lampadina a incandescenza (nota come “centennial light”) nella caserma dei pompieri di Livermore, in California. La sua luce si è affievolita, ma non si è mai spenta. Era stata prodotta negli USA dall’inventore francese Adolphe Alexandre Chaillet (1867-1915). L’invenzione non fu però nemmeno presa in considerazione dall’industria, e Chaillet morì dimenticato.
Ebbene, gli industriali a Ginevra nel 1924 si chiesero: come superare la crisi di sovrapproduzione che lasciava le nuove lampadine invendute a causa della loro lunga durata? Se le lampadine durano molto, la gente ne compra di meno, perché non ha bisogno di sostituirle.
La soluzione trovata fu mercantilisticamente geniale, ma eticamente assai discutibile: ci si accordò per produrre da allora in poi solo lampadine progettate per durare esattamente mille ore. L’espediente sarebbe stato imposto — aspetto ancor più riprovevole — a tutte le altre aziende di lampadine, infliggendo “sanzioni” alle industrie renitenti.
Lo stratagemma funzionò al punto da far sopravvivere sino ad oggi solo le aziende che si adeguarono, e che ubbidirono al diktat delle grandi. Fu propalata una verità ufficiale: secondo cui mille ore di vita sarebbe il numero “ideale” per far funzionare al meglio le lampadine. Fu azzerata la “biodiversità” di lampadine non ancora standardizzate — con relative fabbriche in concorrenza fra loro — esistite fino a quel momento, tutte capaci di durare intorno alle 2.500 ore almeno. Le vendite aumentarono di nuovo, e così i profitti degli azionisti. Nessuno si curò dei danni ambientali causati dall’aumento dei rifiuti elettrici, né dell’immenso spreco di materiali e risorse, né tantomeno del moltiplicarsi dei costi per i cittadini tutti. Il profitto prima di tutto: solo questo contava.
L’accordo fu chiamato Phoebus cartel. Febo (“splendente”) era l’appellativo di Apollo, dio greco della luce. Si trattava di un vero, iniquo cartello commerciale, un oligopolio ai danni di consumatori e aziende concorrenti. Durò ufficialmente fino al 1939, e nel 1949 negli USA lunghi processi civili riconobbero la General Electric responsabile di violazione della normativa antitrust.
Tuttavia, di fatto, le lampadine continuarono a non durare più di mille ore. L’accordo Phoebus ufficialmente non c’era più, ma nessuna fabbrica si sognò minimamente di trasgredirlo. Meraviglie del “libero mercato”. I consumatori rimasero tributari di fabbriche che vendevano loro lampadine truccate per non funzionare “troppo” ed essere sostituite spesso.
Era nata l’obsolescenza programmata, che oggi riempie il pianeta di rifiuti — perlopiù tossici — al ritmo di 450 milioni di tonnellate annue. I marchingegni elettronici durano sempre meno, e così automobili, elettrodomestici e qualsiasi strumento.
Nel 2003 la Apple fu accusata di degrado programmato, perché la batteria del primo iPod (lettore di musica portatile) moriva in 18 mesi ed era impossibile sostituirla: ciò obbligava i consumatori a comprare nuovi iPod. In seguito alla class action subita, la multinazionale accettò di offrire rimborsi ai clienti scontenti delle batterie.
In verità già a fine ‘700 i primi industriali tessili avevano inventato un sistema per rendere obsoleti i propri prodotti in breve tempo: la moda. E nei primi anni ’20 del ‘900 i costruttori di automobili resero obsolete le vecchie auto nere col produrne di nuove a colori sgargianti.
Infine la crisi del ’29 — in gran parte dovuta sovrapproduzione — fece del deperimento programmato una prassi comune non dichiarata. Ormai tutti noi siamo ben addestrati a considerare desiderabile la frequente sostituzione di tutti i nostri beni per rimanere “aggiornati”.
Tutto ciò va insegnato agli studenti, perché l’acquisizione di una coscienza critica passa attraverso la costruzione di conoscenze significative, che aprano gli occhi sulla realtà, facendola scorgere dietro il velo delle pubblicità, degli slogan e delle ideologie (come quella neoliberistica oggi tanto in voga). Realtà che è possibile — e doveroso) — far conoscere mediante un curricolo di storia e/o di educazione civica.
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