È importante oggi la libertà di stampa in un Paese democratico ad economia avanzata? O se ne può fare a meno, «tanto ci sono i social media»? Il tema è di quelli che scottano, e non può essere ignorato a scuola, specialmente in un curricolo di educazione civica degno di questo nome.
No, decisamente della libertà di stampa non si può fare a meno. Base di ogni progresso è l’informazione: solo se i cittadini conoscono la realtà possono modificarla, lavorando e lottando per un futuro diverso. La libertà di stampa garantisce il diritto all’informazione come la libertà d’insegnamento garantisce il diritto all’istruzione. Ma la realtà mondiale d’oggi dimostra che la libertà di stampa (come del resto la libertà dei docenti) è minacciata quasi ovunque.
Eppure — sulla carta — nessuno Stato della Terra si dichiara esplicitamente contrario alla libertà di stampa. Persino la Costituzione della Corea del Nord — che certo non brilla per rispetto dei diritti umani — all’articolo 67 dichiara solennemente: «Ai cittadini è garantita la libertà di parola, di stampa, di riunione, di manifestazione e di associazione. Lo Stato garantisce le condizioni per la libera attività dei partiti politici democratici e delle organizzazioni sociali».
La Costituzione della Repubblica Italiana tratta il tema all’articolo 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Tuttavia un’amara sorpresa attende chi avesse voglia di leggere l’Indice mondiale della libertà di stampa (“World Press Freedom Index”), redatto annualmente da Reporters Sans Frontières (RSF), ONG no-profit consulente dell’ONU, impegnata sin dalla sua fondazione (1985) nella difesa della libertà d’informazione.
I primi sei Paesi per libertà di informazione sono quelli già noti per il senso civico dei propri cittadini: Norvegia, Danimarca, Svezia, Estonia, Finlandia, Irlanda. Per trovare l’Italia, invece, su 180 Paesi esaminati, bisogna scendere. Di molto. Non la troverete fra i primi dieci. Ma nemmeno tra i primi 50.
Ebbene sì. Il Bel Paese sprofonda quest’anno al 58° posto della classifica (dal 41° del 2021). Meglio di noi fanno, in materia di tutela dell’informazione e della libertà dei giornalisti, persino Macedonia del Nord, Romania, Suriname, Armenia, Gambia, Tonga, Belize; e poi ancora Sierra Leone, Samoa, Uruguay, Corea del Sud (che peraltro paga i docenti il doppio dell’Italia), Burkina Faso, Moldavia e altri “insospettabili”.
La Russia di Putin è al 155° posto; ma anche l’Ucraina di Zelens’kyj non se la passa poi così bene (106° posto). Regno Unito e USA (che perseguitano il giornalista Julian Assange da dodici anni) sono rispettivamente al 24° e al 42°. Germania al 16°, Francia al 26°, Giappone al 71°. Troviamo poi il Brasile al 110°; l’India (“la più grande democrazia del mondo”) al 150°; la Cina, con le sue migliaia di esecuzioni capitali ogni anno, al 175° (sestultima).
Tra quelli che con disprezzo gli anglosassoni chiamano PIIGS o GIPSI (di cui fa parte l’Italia), spiccano il 7° posto del Portogallo, il 32° della Spagna, il 108° della Grecia. Tra i Paesi NATO (difensori ufficiali della democrazia mondiale) brilla il 149° posto della Turchia di Erdoğan, “mediatore di pace” nella guerra russo-ucraina. Ultima la già citata Corea del Nord (quella della libertà di stampa in Costituzione).
Una riflessione su tutto ciò è di rilevante interesse per gli studenti, futuri cittadini: perché l’Italia è così in basso (41° posto nel 2021, 58° oggi) nella classifica della libertà d’informazione? Secondo quali parametri vengono calcolati i punteggi del World Press Freedom Index?
Ufficialmente, ripetiamo, tutti gli stati del mondo tutelano le libertà. La realtà però è quasi sempre ben diversa. Qui da noi, ad esempio, troppo spesso i giornalisti si autocensurano: lo fanno per paura di ritorsioni da parte delle mafie o degli estremisti politici; o per timore di azioni legali connesse a possibili accuse di diffamazione; o per non contraddire l’indirizzo editoriale (e politico) della testata per cui scrivono. Lo fanno per la mancata adozione di progetti di legge che, se varati, li tutelerebbero delimitando il reato di diffamazione e alleggerendo le pastoie burocratiche che frenano l’accesso dei giornalisti ai dati in possesso dello Stato.
Si autocensurano per non perdere paghe assai scarse, in un momento in cui i media dipendono dal denaro, dalla pubblicità, dai sussidi privati e statali, dalle vendite in cronico calo. Lo fanno perché aggrediti verbalmente e fisicamente dagli haters (che in internet pullulano); oppure per non finire nelle “liste di proscrizione” stilate volte da giornalisti famosi, che si permettono di additarne altri per la loro presunta militanza “dalla parte sbagliata”.
La concentrazione dei media nelle mani di pochi oligarchi (anche nostrani), infine, certamente non aiuta l’indipendenza dei giornalisti (come già alcune testate denunciavano tre decenni fa).
Far riflettere gli allievi su questi temi è di fondamentale importanza perché comprendano il Paese reale e il mondo nel quale si apprestano a diventare adulti.
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