Didattica

Educazione civica: Jan Karski, che rischiò la vita per denunciare il genocidio nazista

Cattolico, polacco, classe 1914, alto ed emaciato: si chiamava Jan Kozielewski (meglio noto come Jan Karski) e tentò di dare l’allarme sul genocidio nazista ai danni di ebrei, disabili, diversi. Non gli credettero, ma lui s’impegnò con tutte le proprie forze per descrivere e denunciare l’orrore, che aveva visto di persona e che voleva testimoniare. Un esempio per i giovani, di solidarietà e coraggio, da far conoscere a Scuola nell’ambito dell’educazione civica.

In un’Italia sopraffatta dalle continue notizie su baby gang, bullismo e revanscismo nazifascista montante tra i giovani, figure come la sua non vanno dimenticate.

Non esitò un momento nel rischiare tutto per gli altri

Nato a Łódź, fu studente molto bravo, poi artigliere nell’esercito polacco. Dedicatosi alla diplomazia e assunto al ministero degli esteri, partecipò a missioni diplomatiche a Londra e Parigi. Poi si arruolò nella cavalleria. Dopo l’aggressione nazista alla Polonia, nel settembre 1939, a 25 anni, fu catturato dai sovietici di Stalin (complici dei nazisti di Hitler in virtù del patto Molotov-Ribbentrop). Molti polacchi furono trucidati dai sovietici, ma lui riuscì a scappare, entrando nella resistenza in collegamento con gli Alleati.

Avendo notizia dei maltrattamenti nazisti sugli ebrei, si fece poi catturare dai tedeschi per infiltrarsi tra i prigionieri, ma cadde nelle grinfie della GeStaPo. Per non cedere alle torture, tentò il suicidio tagliandosi le vene, ma fu portato in ospedale e salvato. Da lì i partigiani polacchi lo fecero evadere.

Mettere in gioco la vita pur di far conoscere la verità

Pur conscio dei rischi, su incarico del governo clandestino polacco nell’agosto 1942 si fece di nuovo catturare dai tedeschi per infiltrarsi nel ghetto di Varsavia, dove raccolse preziose informazioni sulla Soluzione Finale e sui campi di sterminio. I deportati lo supplicavano di rivelare al mondo quanto accadeva, onde nessuno potesse mai dire di non sapere. Ne nacquero i Rapporti Karski, che per la prima volta squarciavano il buio sulle terribili atrocità che i nazisti stavano perpetrando nei Lager su milioni di esseri umani, tra cui bambini, donne, anziani.

L’indifferenza di Churchill e Eden

Nel novembre 1942, a Londra, riferì direttamente a Winston Churchill quanto sapeva. Eppure, il Primo ministro britannico rimase incredulo, freddo, indifferente. A dicembre lo stesso governo polacco in esilio tentò di convincere gli Alleati a fermare lo sterminio, ma non fu ascoltato.

Nel febbraio 1943 Anthony Eden, Segretario di Stato britannico per gli affari esteri, rispose di non poter fare nulla. Nemmeno il rogo nazista del ghetto di Varsavia nel maggio 1943 (13.000 assassinati e 42.000 deportati) spinse gli angloamericani a muovere un dito per salvare gli ebrei dallo sterminio, che intanto procedeva a ritmi industriali. Szmul Zygielbojm, membro socialista del governo polacco (ed ebreo), si suicidò per protesta.

Nemmeno Roosevelt lo ascoltò

Luglio 1943: a Washington Jan Karski parla animatamente col presidente Franklin Delano Roosevelt in persona, chiedendogli di bombardare i lager per far fuggire i deportati. Nessun risultato. Nemmeno un giudice della Corte Suprema, Felix Frankfurter, benché ebreo, gli dà retta, e riferisce: «Io non affermo che questo giovanotto menta, ma che non riesco a credergli». Così anche molte altre personalità. Non era mai il momento giusto, e prima di agire — gli rispondevano — bisognava “approfondire”.

Insomma, Karski fallì. Non riuscì a smuovere gli Alleati, a convincerli della realtà dell’olocausto, e si sentì in colpa per tutta la vita per questo fallimento. «Ero troppo anonimo e ordinario per suscitare interesse  alla causa». Eppure rischiò la vita e mise in gioco tutto pur di salvare le persone che erano ancora vive, e che si sarebbero salvate se Karski fosse stato ascoltato da quanti, in seguito, caddero dalle nuvole al vedere foto e filmati di Auschwitz, Buchenwald, Majdanek, Treblinka, Bergen-Belsen.

Per tutta la vita si sentì responsabile per non esser riuscito a salvare i deportati

Il sito di GaRiWoGardens of the Righteous Worldwide, ovvero Giardini dei Giusti in tutto il mondo, organizzazione no profit per diffondere la conoscenza dei Giusti, ossia delle persone che si sono opposte a genocidi, deportazioni e violenze rischiando tutto — riporta le amare parole di Karski: «Dopo la fine della guerra ho appreso che governi, responsabili politici, studiosi, scrittori non sapevano cosa stava accadendo agli ebrei. Sono stati colti di sorpresa. L’assassinio degli ebrei era un segreto… Allora mi sono sentito un ebreo. Come la famiglia di mia moglie — tutti loro sono morti nei ghetti, nei campi di concentramento, nelle camere a gas — così tutti gli ebrei sterminati sono diventati la mia famiglia. Ma io sono anche un cristiano ebreo, un cattolico praticante. Non sono un eretico, ma la mia fede mi dice che l’umanità ha commesso un secondo peccato originale con le sue azioni, con l’omissione di soccorso, con l’indifferenza, con l’insensibilità, con l’egoismo, con l’ipocrisia e con una fredda razionalizzazione. Questo peccato perseguiterà l’umanità fino alla fine dei tempi. Questo peccato mi perseguita. E io voglio che sia così».

Un esempio per i nostri giovani

Nel 1982 Karski ricevette la medaglia di “Giusto tra le Nazioni” dallo Yad Vashem (Ente nazionale di Gerusalemme per la Memoria della Shoah). Aveva ormai 68 anni, ma era ancora fortemente adirato con Churchill e Roosevelt, che non lo avevano ascoltato.

Morì nel 2000. A Tel Aviv c’è un monumento che lo ricorda, seduto compostamente su una panchina, come un uomo qualunque. Sarebbe bello che tutti gli uomini qualunque fossero come lui. Nel 2011, all’interno del Giardino dei Giusti di tutto il mondo a Milano, gli sono stati dedicati un cippo ed un albero.

Uomini come Jan Karski costituiscono il motivo principale per cui è ancora lecito sperare. Per questo va fatto conoscere ai giovani in età scolare.

Alvaro Belardinelli

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