Si è molto parlato nelle ultime settimane delle non ottime competenze linguistiche dei nostri studenti.
Per la verità il problema non è di oggi. E’ da almeno mezzo secolo che pedagogisti, linguisti e insegnanti ne discutono con l’obiettivo di trovare qualche soluzione.
Una delle proposte più interessanti venne avanzata nella metà degli anni ’70 da un gruppo coordinato dal professor Tullio De Mauro e al quale diede un importante contributo anche Raffaele Simone. Di quella straordinaria esperienza parliamo con Mario Ambel, già insegnante di scuola “media” e direttore della rivista Insegnare dal 2006.
Alla fine degli anni ’90 aveva coordinato l’area linguistico-letteraria della Commissione De Mauro per il riordino dei cicli.
Domanda
Le dieci tesi per una educazione linguistica democratica vennero redatte poco più di 40 anni fa. Gli insegnanti più giovani forse non sanno neppure cosa siano. Vogliamo spiegarlo in poche battute?
Mario Ambel
Non solo non lo sanno gli insegnanti più giovani, ma alcune indagini compiute sia in occasione del ventennale (1995) che del trentennale (2005) delle “Dieci Tesi” hanno dimostrato che molti insegnanti non le conoscevano e soprattutto non le praticavano neppure allora.
Le “Dieci Tesi” prendevano atto delle carenze dell’educazione linguistica tradizionale e soprattutto della necessità di introdurre elementi di profonda trasformazione per garantire i principi di uguaglianza e pari opportunità sanciti dalla Costituzione, per far sì che ciascuno potesse essere padrone delle parole e delle potenzialità espressive per capire il mondo in cui vive, interagire positivamente con gli altri, partecipare alla vita democratica del Paese. Per farlo, esse partivano dal presupposto di considerare il ruolo e l’importanza del linguaggio verbale, nella pluralità dei suoi usi, come dimensione fortemente intrecciata con le condizioni biologiche, emotive, culturali e cognitive di ciascuno. Ne scaturiva l’esigenza di un rinnovamento profondo del modo di intendere ancor prima che di praticare l’educazione linguistica, soprattutto se si voleva che fosse realmente “democratica” e costruttrice di democrazia attiva.
Perché negli anni 70 i docenti più attenti e sensibili sentirono l’esigenza di fare riferimento a questo documento?
Molti di noi insegnavamo nelle periferie delle metropoli o in piccoli paesi di provincia, ovvero in contesti complessi, dove era più marcata l’esigenza ma anche la difficoltà, come diceva De Mauro citando Rodari, di garantire “tutti gli usi della lingua a tutti” e ci rendevamo conto che quella che le “Dieci Tesi” chiamavano la “pedagogia linguistica tradizionale” non solo non era utile allo scopo, ma anzi produceva guasti ulteriori, emarginando anziché includere.
Il che aveva anche un forte significato politico (che derivava da quel “democratica” accostato a educazione linguistica) poiché significava credere nella centralità e nel ruolo della scuola come luogo di inclusione sociale, crescita individuale, palestra di democrazia, sviluppo culturale e civile del paese.
Ma il documento è ancora attuale?
Ci sono tre chiavi di lettura della attualità delle “Dieci Tesi”. Anzitutto quel fine strategico e politico, attuale oggi come ieri. Oggi si ripropone il problema di nuovi emarginati dalla complessità della comunicazione contemporanea. O forse di integrati apparenti, ovvero di persone (di certo non solo giovani) che leggono senza capire ciò che leggono e senza saperne fare buon uso o, fenomeno ancora più complesso, che scrivono e interagiscono sui “social”, ma affidandosi quasi esclusivamente a un registro povero, rozzo, spesso violento e volgare. Il nostro resta un paese linguisticamente diseducato, e talvolta anche ineducato. Certo non poche responsabilità sono della scuola, ma è paradossale che i detrattori di De Mauro e dell’educazione linguistica democratica attribuiscano queste carenze proprio a quelle istanze di rinnovamento, valide allora come oggi, accusandole di aver abbassato il livello, ridotto le richieste e la severità della scuola. In realtà le cose stanno in modo assai diverso. Del resto, già nelle “Dieci Tesi” si avvertiva che l’educazione linguistica democratica e partecipata era assai più impegnativa di quella normativa e selettiva.
Forse c’è anche un altro elemento: le “Dieci tesi” erano anche un documento di contestazione nei confronti della didattica tradizionale
Proprio così. La seconda chiave di lettura è infatti l’attualità della contestazione a una didattica che appariva già allora tradizionale e fallimentare. La scuola italiana, nel suo complesso, ha continuato a insegnare quelle che chiamavamo allora le “4 abilità linguistiche” in modo molto tradizionale e in definitiva non soddisfacente. I punti maggiormente criticati allora (il disinteresse delle altre discipline per gli apprendimenti linguistici, la distanza della lingua insegnata dalla lingua reale, la scarsa attenzione al patrimonio linguistico e culturale degli allievi, la priorità della lingua scritta sul parlato, la prevalenza del registro formale sulle varietà linguistiche, l’artificiosità astratta dei temi e dei riassunti, la grammatica normativa in cui il rispetto rigido della regola prevale sulla riflessione dinamica sugli usi, l’analisi logica, lo studio di autori che bisogna conoscere anche se non li si capisce, in luogo della promozione della passione per la lettura, ecc.) sono sopravvissuti nella scuola e anzi sono spesso recentemente ritornati come soluzioni illusorie alle nuove difficoltà imposte dalla dimensione multimodale e plurilinguistica della comunicazione contemporanea. Quel rinnovamento sentito come urgente allora, appare oggi come una occasione persa, da cui certamente ripartire, ma facendo i conti con una realtà assai più complessa.
Ma perchè l’aggettivo “democratica” ?
Questo ha a che fare proprio con il terzo motivo di attualità:oggi come allora, un’educazione linguistica che intenda essere “democratica” deve porsi come obiettivo, ai sensi dell’art. 3 della Costituzione, la riduzione delle disuguaglianze e delle differenze.
Ebbene, tutti i riscontri di ogni tipo (compresi i “Rapporti Invalsi” di cui tanto di discute in questi giorni) ci restituiscono l’immagine di una scuola nazionale e di un paese segnati da profonde differenze e disuguaglianze di risultati e di condizioni: fra materie, fra ordini di scuola, fra nord e sud, fra territori, fra scuole e plessi dello stesso territorio, fra maschi e femmine, fra italiani e immigrati di prima e seconda generazione, fra strati sociali, persino (purtroppo) fra prima fase di scolarizzazione e tappe successive (via via in parte più insoddisfacenti)… Quindi è estremamente attuale la scelta di strategie che riducano le disuguaglianze, anziché accentuarle. Invece, una buona parte della politica, con l’acume votato al peggio che la contraddistingue da anni, vorrebbe compiere una scelta che accentui e radicalizzi le differenze e le diseguaglianze: l’autonomia differenziata.
Ci può fare un esempio concreto di una attività linguistica democratica da svolgere in una secondaria di primo grado?
È una bella domanda perché costringere a scendere (o a salire?) sul terreno della concretezza del fare scuola. Mi rifaccio anche ai lavori condotti in questi anni in gruppi di ricerca e sperimentazione che, in luoghi diversi del paese, mettono in pratica quelle indicazioni. Vorrei fare tre esempi, uno per anno.
Classe prima.
La stesura di più testi elaborati individualmente o, se ne sussistono le condizioni, in piccoli gruppi (per esempio la cronaca di una giornata particolare o di una esperienza vissuta insieme), quindi, su quei testi, il confronto fra i giudizi dei parlanti (autovalutazione e valutazione fra pari su significati, completezza, comprensibilità) e l’intervento correttivo del docente sulla base di regole di correttezza o di scelte di registro o formali.
Classe seconda.
Un’attività collettiva di riflessione sulle caratteristiche linguistiche di un testo (per esempio i tempi e modi verbali in un testo divulgativo su un tema di tipo “disciplinare”, scientifico, tecnico o geostorico) funzionale al rinforzo della comprensione del testo o alla revisione di una propria rielaborazione del testo stesso, in luogo della lezione “trasmissiva” e nozionistica sulle “regole” del funzionamento dei tempi e dei modi verbali nel testo espositivo (che può venire – se mai – dopo).
Classe terza. La lettura individuale di un testo o di due testi argomentativi su una tematica interessante e coinvolgente, quindi un confronto collettivo sui significati e le idee espresse. A seguire, una scrittura individuale con possibilità diverse di riuso e riscrittura del testo o dei testi, valutata poi non sulla base di astratti parametri di riferimento, ma sulla base delle potenzialità di ciascuno e della capacità di aver messo a frutto le proprie risorse.
Come si vede questi esempi hanno due dimensioni in comune che ne costituiscono la cifra di coerenza con le “Diesi Tesi” e di allontanamento dalla didattica tradizionale: propongono visioni e pratiche integrate delle abilità produttive e ricettive e della riflessione metalinguistica; adottano modalità di osservazione valutativa di tipo descrittivo, comparativo e migliorativo, a partire dalle potenzialità di ciascuno e non misurativa o classificatoria sulla base di standard presunti di “sufficienza”.
Secondo lei, Tullio De Mauro è stato sopravvalutato o sottovalutato come linguista?
Gli sono stati ampiamente riconosciuti, in ambito scientifico, i suoi meriti di storico della lingua, lessicografo e teorico del linguaggio. Certo non gli sono mancati, soprattutto post mortem, attacchi e critiche, anche inopportuni e sgradevoli e spesso infondati, da parte dei detrattori dell’educazione linguistica da lui propugnata o sulle sue scelte di Ministro. Si tratta di contestazioni note, che attribuiscono agli anni Settanta la degenerazione della scuola italiana e si risolvono spesso nella riproposizione di soluzioni nostalgiche ed inefficaci. Quello che so per certo è che Tullio De Mauro è stato ed è tuttora considerato un Maestro (parola che egli pronunciava con rispetto e riconoscenza) dai docenti impegnati a insegnare a leggere, scrivere e pensare a tutti, e non solo a chi è facilitato dal contesto socioculturale di provenienza. E mi permetto di segnalare che su “Insegnare” sono assai frequenti gli interventi di docenti che credono ancora in queste priorità, ci riflettono, ne propongono esempi applicativi.
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