Nel Bel Paese l’esame di Stato torna dare importanza fondamentale ai quiz Invalsi. Il cui risultato effettivo, d’altronde, non conta: basta averli sostenuti (in inglese, italiano, matematica). Non conta nemmeno il fatto che questo tipo di prove sia stato (e continui ad essere) molto criticato, e ormai in via d’abbandono presso quegli stessi Paesi anglosassoni che per primi le avevano adottate. Bisogna farli e basta. Perché lo dice il D.Lgs 13 aprile 2017, n. 62; il quale altro non è se non l’applicazione della revisione dell’Esame di Stato, introdotta dalla legge 107/2015 (comma 181, lettera i). Gli studenti inoltre, per sostenere l’esame, dovranno essere sottoposti allo svolgimento delle ore previste dai “Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento” (chiamarli ancora “Alternanza Scuola Lavoro” sarebbe stato impopolare).
Abbiamo già visto quanto la Scuola italiana sia cambiata grazie ad input esterni. A voler pensar male, parrebbe quasi che, quando il pensiero unico neoliberista chiama, i Governi rispondano. E in effetti uno dei “target” che questo pensiero unico reclama è la privatizzazione de facto — se de iure risulta impossibile a causa dei vincoli costituzionali — della Scuola Statale (l’unica pubblica). La legge 107/2015 (soprannominata, con antifrasi di stampo orwelliano, legge della “Buona Scuola”) ha raggiunto il traguardo dando tutti i poteri al Dirigente Scolastico: diritto di incaricare, premiare in soldoni ed esonerare ad libitum gli insegnanti, con buona pace della libertà d’insegnamento e di apprendimento, della sovranità degli organi collegiali e della democrazia scolastica. Chi critica tutto ciò, sostiene trattarsi di autoritarismo allo stato puro, spacciato per “realizzazione dell’autonomia scolastica”: le solite malelingue?
Tutti obiettivi conseguiti in brevissimo tempo, comunque: malgrado il vetusto e — a sentire quanti sostennero il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 — arrugginito bicameralismo perfetto; e nonostante la presenza dei “movimenti populistici” che il documento firmato JP Morgan (di cui La Tecnica della Scuola ha già trattato) accusa quali responsabili dei problemi italiani (nonché greci).
Sorge spontanea la domanda: visto tutto ciò, la nostra classe politica e dirigenziale sta forse tradendo i principi ispiratori della nostra Repubblica, nata dalla resistenza al fascismo? Allo stesso modo, la classe dirigenziale e politica che detta legge nell’Unione Europea tradisce forse e rinnega lo spirito dei suoi padri fondatori?
Tra il 1941 ed il 1944, dal loro confino nell’isoletta di Ventotene (in cui erano stati relegati perché antifascisti insieme Sandro Pertini, Umberto Terracini, Luigi Longo, Pietro Secchia, Mauro Scoccimarro, Camilla Ravera (insegnante) e Riccardo Bauer), Altiero Spinelli, Ursula Hirschmann ed Ernesto Rossi redigevano un documento che teorizzava gli Stati Uniti d’Europa, proprio nel momento in cui più buio era il baratro della guerra in cui l’Europa era caduta: Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto. Meglio conosciuto come Manifesto di Ventotene, il documento sarebbe stato poi pubblicato (in clandestinità) da Eugenio Colorni, che ne scrisse anche la prefazione.
Gli Autori consideravano già a quel tempo necessaria una federazione europea, con un parlamento europeo, eletto a suffragio universale da tutti i cittadini e le cittadine d’Europa, che esprimesse un governo democratico con poteri esecutivi concreti in politica estera e nell’economia. L’esperienza delle due guerre mondiali non poteva più essere ignorata: «Tutti gli uomini ragionevoli», dichiara il documento, «riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di stati europei indipendenti con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni con gli altri paesi, né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta. Alla prova, è apparso evidente che nessun paese d’Europa può restarsene da parte mentre gli altri si battono, a nulla valendo le dichiarazioni di neutralità e di patti di non aggressione. È ormai dimostrata la inutilità, anzi la dannosità di organismi, tipo della Società delle Nazioni, che pretendano di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei».
La democrazia, insomma, è un bene irrinunciabile per tutte le nazioni, e non può esserne tollerata la sparizione in nessun Paese dell’Unione.
Oggi l’Unione Europea considera se stessa come la realizzazione di questi principi.
Ebbene: non è forse la Scuola la base di ogni democrazia? E non dovrebbe essere la Scuola il luogo ove si elabora liberamente il pensiero e la conoscenza critica (basata sull’analisi libera e onesta dei dati a disposizione), perseguendo la conoscenza disinteressata (punto di partenza di ogni progresso)? Non dovrebbe esser dunque proprio la Scuola una comunità educante, le cui componenti (docenti in primis) siano libere dai condizionamenti di qualsiasi pensiero unico, di natura religiosa, politica, economica, culturale, familistica che sia? Quanto di questi principi è però conciliabile con la Legge 107/2015 (che il Movimento 5 Stelle aveva promesso di abolire una volta arrivato al Governo della nazione)?
La risposta ai nostri lettori.
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