Il professore era stato mandato a presiedere una commissione di esami di maturità classica in Calabria, in una zona dove di parla l’albanese.
La scuola era ubicata in una zona confinante con un uliveto. Le prove scritte si svolgevano in luglio. Di aria condizionata non si parlava nemmeno e le finestre delle aule ubicate nel piano alto erano spalancate. Viene dettato e trascritto alla lavagna il testo greco da tradurre. Di fotocopie non se ne parla nemmeno (siamo negli anni Cinquanta del Secolo scorso).
Il presidente ed i commissari esercitano una vigilanza rigida. I candidati sono composti e non danno adito ad alcun rilievo. Tutti con gli occhi fissi a leggere e rileggere il testo. Nessuno accenna a scrivere per una buona mezz’ora.
All’improvviso tutti riprendono la penna e si mettono a scrivere.
Allo scadere del tempo, tutti i candidati consegnano il compito. La traduzione è perfetta.
Gli esami proseguono e si concludono correttamente.
Al presidente rimane il dubbio dell’imbroglio ma non si rende conto di quello che può essere capitato.
Passano gli anni. A Roma, alla Stazione Termini, il presidente riconosce il commissario interno di quell’esame. Lo saluta e ricordando l’episodio gli chiede di svelargli la verità.
In quel caldo luglio e in quella idillica situazione, una raccoglitrice di ulive aveva cantato la traduzione nella lingua locale del testo che era stato lanciato fuori dalla finestra da un candidato. La nenia aveva incantato il presidente e gli altri commissari esterni.