È da giorni che la scuola si trova sulle prime pagine dei giornali.
Prima per i voti troppo alti alla maturità, poi per le carenze emerse dai dati Invalsi. Dati addirittura equiparati, soprattutto al Sud per i ragazzi grandi, alla preparazione della terza media, cioè fortemente negativi, nonostante i voti alti. In mezzo l’imputata principale, la didattica a distanza (DaD).
Anche noi, ampiamente, abbiamo richiamato alcuni limiti di questa didattica. Ma, allo stesso tempo, ci siamo anche ripetuti come tanti e tanti presidi e docenti abbiano fatto i salti mortali pur di garantire, nonostante il vuoto normativo, un nuovo modo di fare scuola, con l’ausilio della tecnologia.
Purtroppo non sempre, nei vari commenti di questi giorni, si è considerata la grave situazione che la scuola ha dovuto affrontare.
Ora, giudicare i risultati di quest’anno scolastico come se niente, o quasi, fosse avvenuto mi è parso una leggerezza non perdonabile.
Non solo: non ci si può occupare della scuola solo attraverso le notizie negative o problematiche.
Basta una sola domanda: cosa sarebbe successo senza la didattica a distanza, cioè con i bambini e i ragazzi lasciati a casa senza alcun contatto con la scuola?
Sappiamo le criticità che sono emerse in questo anno e mezzo, ma proviamo, per un attimo, ad immaginare cosa sarebbe successo senza questa nuova didattica, e senza lo smart working, per il mondo del lavoro.
Ovvio, e qui veniamo agli esami di maturità, come si sono svolti lo scorso anno e quest’anno, cioè con soli docenti interni in un’unica prova orale, non possono diventare il modello per i prossimi anni.
Ovvio, perché un vero esame deve e dovrebbe comunque prevedere esaminatori in maggioranza esterni, per ragioni comprensibili, e con più prove scritte. Perchè diverse sono le abilità e competenze richieste negli scritti e negli orali.
Sempre che li vogliamo tenere, questi esami, per via del vecchio mito del valore legale del titolo, oppure per i soli aspetti psicosociali, cioè l’esame finale come cruna dell’ago tra adolescenza e giovinezza.
Ma qui il discorso prende aspetti più generali che riguardano il sistema scuola nel suo complesso, con le criticità più volte denunciate, legate ad una gestione burocratizzata che oramai guarda sempre meno il vero significato di servizio pubblico, cioè un servizio scolastico capace di riconoscere che il cuore della scuola è l’apprendimento degli studenti, non un ammortizzatore sociale per alcune lauree senza mercato del lavoro.
Qui è il sistema scuola che deve interrogarsi. E bene ha fatto il ministro Bianchi a prevedere, a fine anno, una conferenza nazionale sulla scuola, per tentare di alzare la testa e di rispondere a questa e ad altre domande.
Ma la decisione di Bianchi arriverà tardi, come troppe volte è successo, perché il governo Draghi non sappiamo se sopravviverà all’elezione del nuovo presidente della repubblica. Sarà il solito convegno delle tante belle intenzioni, che passerà come notizia secondaria nei nostri mass media.
La scuola, se ancora come Paese vogliamo credere ed avere un futuro, deve diventare invece la notizia principale, la più importante preoccupazione, perché riguarda, appunto, il nostro futuro.
Perché i giovani, i quali sono migliori di come di solito vengono dipinti, sono la nostra speranza di futuro possibile.
La scuola oggi, rispetto al passato, è l’unico momento universale di questi nostri ragazzi. Con la crisi delle famiglie e delle tradizionali agenzie educative, la scuola oggi non adotta più il metodo autoritario della trasmissione delle sole conoscenze, ma ogni giorno si impegna a prendersi cura dei propri allievi, cercando non solo la mera ripetizione, ma la comprensione. Per cui anche i test nozionistici, alla fine, non hanno più senso, se non supportati da forme diverse di una valutazione che si faccia capace di diventare autovalutazione critica per i nostri studenti.
Dunque, se i dati Invalsi e i risultati degli esami di maturità hanno portato in primo piano valutazioni negative, le prime, ed esagerate, le seconde, questo ci deve portare a ripensare l’intero percorso culturale, a considerare che i risultati, come sempre, dicono la qualità dei percorsi, senza nascondersi dietro il nozionismo che tanto piace a chi invoca il tempo passato.
Ci vorrebbe un cambio di marcia nel sistema scuola, per riconoscere ai tanti docenti italiani, imbrigliati dal finto egualitarismo anche stipendiale, il loro valore. Perché tanti e tanti di loro sono davvero dei maestri e delle guide positive per i nostri studenti, a parte situazioni critiche da tutti conosciute ma, sino ad oggi, non risolvibili sul piano sindacale.
Che cosa manca in Italia? Manca un sistema di valutazione dei docenti, dei presidi, del personale, delle singole scuole. E non è più possibile un sistema di reclutamento del personale centralizzato, mentre le scuole tutte devono diventare scuole delle comunità locali.
Sono essenziali, dunque, il ripensamento della scuola come sistema, dunque, ed una più adeguata considerazione del valore di un apprendimento che oggi più che mai richiede approcci valutativi multipli, che tenga conto del nesso imprescindibile tra processo e risultato. Sapendo che oggi conta, prima del possesso di una informazione, la capacità di ricostruirne lo spirito di ricerca.
Per capirci, basterebbe questa piccola verifica. Quanti presidi e docenti, durante l’esame di maturità di quest’anno, si sono concentrati su domande e considerazioni culturali a tutto tondo, senza rifugiarsi nelle domande quiz? Quanti sono consapevoli oggi che le informazioni sono necessarie ma non sufficienti? Quanti hanno compreso che anche le stesse tecnologie, capaci di gestire in modo algoritmico tutte le informazioni possibili, se non mediate dall’arte del domandare ragione, atrofizzano proprio lo sfondo culturale della comprensione, confondendo, al dunque, mezzi e fini, cioè costringendo i giovani, nati digitali, a sacrificare proprio lo spirito critico, che è l’energia vitale della vita come ricerca, come amava ripetere il vecchio Socrate?
Perché insistiamo su questi aspetti?
Per le implicazioni dei percorsi scolastici, al di là dei vari indirizzi di studio, le quali porteranno i nostri giovani a cercarsi una propria strada oltre questi stessi percorsi di studio, una strada magari diversa, nella quale le attitudini ed i talenti, se ben allenati alla multivocità del nostro mondo, potranno trovare reali e differenti opportunità di vita e di crescita culturale. In altre parole, è finito il tempo del cordone ombelicale univoco tra scuola e mondo del lavoro.
In più, se l’innovazione continua, assieme allo studio lungo tutta la vita impastato con l’umiltà di imparare da tutti lavorando in gruppo, è e sarà il passe-partout del loro e nostro futuro, al di là dei titoli di studio, non possiamo non chiudere queste righe augurando a questi nostri ragazzi di incontrare nella vita le opportunità che si meritano. Perché i treni si presenteranno a tutti. È solo restando vigili e disponibili alla messa in discussione dei paradigmi dominanti che potranno riconoscerli questi treni nella propria vita personale e sociale.
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