Finiti, con una settimana di ritardo rispetto allo scorso anno, gli esami di maturità, credo sia giusto riprendere la riflessione sul senso di questa prova finale, al di là del riconoscimento formale del titolo di studio, cioè del suo valore legale. Vecchio feticcio che facciamo fatica a scalfire dall’immaginario di noi italiani.
Al di là del rito di passaggio, cioè del suo valore simbolico e psicologico per intere generazioni, constatare che gli esami di maturità non fanno altro che confermare, con una piccola variazione sui risultati, le valutazioni fatte dai consigli di classe delle quinte superiori, come delle terze medie, non credo possa giustificare la spesa di 130 milioni circa di euro. Che, credo, potrebbero e dovrebbero andare spesi in modo più efficace, vista la continua richiesta del “contributo volontario” da parte delle scuole alle famiglie.
Basta dare un’occhiata: il fatto, ad esempio, che la struttura della valutazione sia oggi costruita sui numeri, con griglie di valutazione precise, togliendo quindi l’imponderabilità del passato (con alcuni ragazzi che tentavano, appunto, la sorte: “me la gioco”), ha finito per snaturare questo stesso rito di passaggio, in una mera conferma, al 95%, delle valutazioni degli scrutini finali di quinta superiore. Un inutile doppione.
A rincarare la dose vi è, infine, la constatazione che le università non danno più valore a questi risultati, tanto da promuovere sempre più, come è giusto, le prove d’ingresso.
Perché questo è il punto: oggi non contano le valutazione alla fine dei percorsi, ma, al di là delle dovute certificazioni, contano le prove d’ingresso (e poi in itinere): dalle medie alle superiori, dalle superiori all’università o al mondo del lavoro.
Lo stesso dovrebbe valere per tutti, compresi i valutatori, cioè i presidi ed i docenti.
Non hanno cioè più senso, per i docenti, tanto per intenderci, le titologie (cioè i titoli di studio), riesumate nel recente accordo sulle “chiamate”, ma contano, oltre ad un ripensato CV, il colloquio e le valutazioni in itinere. Per cui, oltre alle hard skills, contano soprattutto le soft skills, quelle che danno il vero valore aggiunto.
Quando il mondo della scuola capirà questo passaggio fondamentale, già scontato nel mondo del lavoro?
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