I lettori ci scrivono

Esami di Stato e attività di recupero: poco più che una farsa

Ad anno scolastico da poco concluso e fresco di esami di Stato, vorrei proporre un paio di considerazioni.

La prima riguarda i PAI. Come volevasi dimostrare – già un anno fa lo si diceva e lo si scriveva – si sono rivelati nulla più che un aggravio di lavoro per i docenti. Per il resto, sia consentito dire, sono stati una farsa, oltre che un’offesa per i docenti che hanno lavorato seriamente. In teoria – si ricorderà – gli alunni che al termine dello scorso anno scolastico avevano maturato una o più lacune (e relativi PAI) avrebbero dovuto colmarle entro l’anno scolastico appena concluso, pena il non superamento dello stesso. Di fatto, però, non è stato così: persino gli alunni che hanno bypassato il PAI rifiutando tout court di farsi valutare sono stati ammessi alla classe successiva. Il fardello, in un anno già di per sé molto tribolato, l’hanno portato in pratica solo quei docenti così cocciuti da credere ancora nella serietà della scuola: convocando e riconvocando gli alunni che hanno voluto – bontà loro – metterci almeno la faccia, in un’agenda fittissima di incombenze e perlopiù per condurre esami deprimenti. Vergognoso.

La seconda riguarda l’esame di Stato. O, meglio, quel simulacro di esame di Stato che, in continuità con lo scorso anno scolastico, è stato posto in essere anche in questi giorni. Un’oretta per fare tutto. O – meglio – per fare pochino pochino, per chi è stato abituato a ben altri esami di maturità. Ma non è solo questo il punto. A palesarsi è stato anche e prima di tutto un grave deficit di coerenza. La decisione, di per sé assai discutibile, di concentrare tutto in un’oretta di esposizione fa in effetti a pugni con il peso enormemente sproporzionato assegnato all’esame rispetto alla votazione finale: 40 su 100. Ergo, cinque anni di lavoro e una montagna di valutazioni da parte di una moltitudine di docenti valgono poco più di quell’oretta, il cui esito può essere condizionato peraltro da numerose variabili. Un’assurdità sesquipedale, ma tant’è. E, del resto, per quale motivo ci si dovrebbe sorprendere, in uno Stato intriso di anacronistico e grottesco che nell’Anno Domini 2021 impone ancora a conclusione dell’esame di produrre incartamenti a volontà, da richiudere con lo spago e su cui apporre il timbro dopo la piccola colata rossa bollente della ceralacca. Ebbene sì: la ceralacca. Nell’era della digitalizzazione e della miniaturizzazione dei dispositivi informatici di memoria, siamo ancora conquisi dal fascino imperituro del rito ancestrale della ceralacca.
Come mezzo secolo fa. I computer salvano allora solo le apparenze, interludio tecnologico tra una scartoffia e l’altra. L’esame si fa esamino, dunque, mentre rimane tutta l’ampollosità del trito, patetico rituale. L’ottusità burocratica, appendice all’esamino di Stato, non muore mai.
La scuola, be’, quella sì. Perlomeno, agonizza da tempo. Ma a chi e a quanti importa davvero?

Sergio Mantovani

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