Anche quest’anno ho concelebrato il rito degli esami di terza media, un apparato organizzativo che impegna per 15 giorni una considerevole quantità di energia per cercare di far ‘uscire’ gli alunni con lo stesso voto con cui i docenti li hanno ammessi all’esame. A che serve allora? Già…
Per chi non ha molta confidenza, l’esame consiste in 5 prove scritte (italiano, matematica, inglese, seconda lingua, INVALSI italiano e matematica) più un colloquio orale. Il voto finale è determinato meccanicamente dalla media dei 6 voti a cui si aggiunge il voto di ammissione (il numero magico che condensa i risultati di un alunno nel triennio della scuola media). Uno potrebbe pensare che neanche per entrare a Stanford fanno una selezione così. E invece.
Invece, succede che le tracce delle varie materie (soprattutto italiano e matematica) sono le stesse che gli alunni hanno fatto per un anno, ma un po’ più facili, perché si sa, l’esame, la paura, la fragilità, ecc. Che le prove siano valutate in relazione al percorso dell’alunno (quello che per uno è un 5 per un altro è un 7); se poi l’alunno è debole e ci si aspetta che andrà male all’INVALSI, allora la valutazione delle prove precedenti sarà ‘gonfiata’, in modo che la media finale non cada sotto il 6. Che qualche insegnante si senta indirettamente giudicato dai voti negativi dei suoi alunni, e dunque – anche qui – corregga al rialzo.
L’unica vera prova esterna è appunto quella INVALSI, i cui risultati non a caso discordano spesso in modo drammatico dai voti delle prove interne di italiano e matematica (al netto di quelle scuole dove anche i voti dell’INVALSI vengono ‘addomesticati’).
L’orale poi è la parte più istruttiva. Molti alunni si presentano con la cosiddetta ‘tesina’, che non è altro che una successione di argomenti imparati a memoria e sciorinati in sequenze più o meno irrelate a docenti pazientissimi e resilienti, che fanno domande solo quando sanno di non mettere in difficoltà il ‘candidato’.
In buona sostanza dal punto di vista della valutazione degli apprendimenti l’esame è inutile. I docenti sarebbero perfettamente in grado di dare ai loro alunni una valutazione finale senza ripetere per l’ennesima volta un tema o un compito di matematica o di lingue.
Le uniche due prove che dicono qualcosa (INVALSI e colloquio orale) vengono più o meno ‘neutralizzate’, come detto sopra. Oltre tutto ‘là fuori’ ci sono le famiglie che aspettano i prof al varco della pubblicazione dei tabelloni: se il ragazzo non esce almeno con lo stesso voto di ammissione, sono spesso lamentele, richieste di accesso agli atti, a volte lettere di avvocati. Quasi tutto è concesso alla scuola, tranne le verità sgradevoli.
Il risultato finale è che, se i voti di uscita dall’8 al 10 hanno qualche timida corrispondenza con la realtà (in genere al rialzo), un 6 o un 7 possono significare di tutto: esce con 6 l’alunno che meriterebbe 4, 5 oppure 6 (‘pieno’, come si dice); con il 7 non solo chi meriterebbe quel voto, ma anche chi non può essere confuso con i ‘finti 6’. Mi rendo conto che all’osservatore esterno sembra la fiera dell’assurdo, ma questa è la realtà degli esami (non solo di terza media).
Queste grottesche esperienze non devono tuttavia condurre a pensieri rottamatori. L’esame è un rito fondamentale per un alunno, tanto da far rimpiangere quello di quinta elementare.
Non solo perché è una lezione di vita per quelli che fanno gli “scialli” nei loro gruppi e che poi davanti a una decina di loro docenti schierati piangono, ammutoliscono, balbettano, non ricordano, ecc.
Ma perché tutti i bambini e i ragazzi hanno bisogno di misurarsi con la ‘prova’ (il concerto, la gara sportiva, il concorso), di riflettere sulle loro risorse, di elaborare strategie, ecc. Le prove chiariscono, rafforzano, costringono a fare i conti, permettono salti di qualità. Almeno se vengono gestite dagli adulti in modo costruttivo e responsabile, e non in pura modalità airbag o ‘spazzaneve’.
Ecco allora tre proposte secche per salvare la scuola dall’infinita ripetizione dell’(inutile) identico.
Prima: eliminiamo tutte le prove scritte, tranne l’INVALSI, e aggiungiamo una prova INVALSI di inglese; queste tre prove ci daranno una fotografia degli apprendimenti dell’alunno su tre materie importanti.
Seconda: trasformiamo l’orale in un colloquio vero, senza schemi precostituiti, senza paura (per fare questa ‘rivoluzione’, basta rispettare la normativa vigente).
Terza: eliminiamo la stupida tirannia del 6. Perché la media finale deve fare 6, costringendo a continui ‘aggiustamenti’ preventivi? Promuoviamo i ragazzi con i voti reali, con le valutazioni vere di quello che sanno e che non sanno, ed estirpiamo una buona volta l’ipocrisia di un sistema che privilegia la forma alla sostanza.
Bocciare non serve quasi a nulla (come esperienza e OCSE insegnano), ma perché per promuovere dobbiamo mentire sapendo di mentire? Questa riforma spazzerebbe via anni di timori e di ipocrisie. Sarebbe liberatorio in tutte le classi e in tutti gli ordini di scuola – ben al di là degli esami – poter promuovere senza la tirannia del 6, dando voti veri e consegnando ai docenti delle classi successive, dell’università o dell’azienda, un ritratto reale delle competenze e delle abilità degli alunni.
Promosso alla classe successiva: bravo in matematica, scrive male in italiano, non ha mai studiato storia; ottimo ginnasta, suona con passione la chitarra, abile nell’ideare e realizzare manufatti; in francese parla come Totò, ma in inglese riesce a sopravvivere; e così via (ovviamente con linguaggio formalizzato!).
Un bel salto laico e pragmatico per un paese più incline alle vuote rappresentazioni rassicuranti. A cui però docenti e presidi sono a mio parere pronti da tempo. Liberiamoci del maledetto 6!