Con questo articolo concludiamo una rubrica dal titolo Scienze per la Scuola, attraverso la quale abbiamo proposto, periodicamente, articoli che offrono agli insegnanti contributi scientifici a supporto del loro lavoro didattico-pedagogico di ogni giorno. L’obiettivo è quello di mettere sempre più in collegamento questi due mondi, scuola e scienze, in teoria e negli auspici così vicini, ma forse ancora troppo lontani nella realtà.
Definizione di Mammismo: “Eccesso di sentimento protettivo della madre nei confronti del figlio, specie se maschio, e il conseguente condizionamento del figlio a questa protezione, cui segue il perdurare di una condizione di subordinazione affettiva alla madre anche nell’età adulta e nell’eventuale vita matrimoniale.” (treccani.it)
Si ha l’impressione che esista però oggi (e che sia prevaricante) una sorta di mammismo pedagogico, la tendenza cioè ad un progressivo esautoramento del principio normativo (educare il minore a stare al mondo, a rispettare le regole, ad assumersi le proprie responsabilità, ad affrontare le prove della vita, ecc.) a vantaggio esclusivo del cosiddetto principio affettivo (supportare l’allievo nella sua crescita attraverso empatia, riconoscimento, cura). Quando dovrebbe essere evidente che i due principi pedagogici sono entrambi necessari e complementari e che vanno messi in equilibrio nel processo educativo.
Ne viene fuori, ormai piuttosto spesso, la tendenza a trattare bambini e ragazzi come se siano strutturalmente incapaci di affrontare gli ostacoli, di gestire ogni prospettiva di temporaneo fallimento, ogni occasione di turbamento anche potenziale. Come se ogni concomitanza non positiva nella vita costituisca, di per sé, un attentato all’autostima e al diritto alla felicità dei minori. All’interno di questa cultura, che pare dilagante, gli esami di Stato costituiscono un dato, diciamo, in controtendenza.
In una società come questa, infatti, è già un miracolo che gli esami esistano ancora, che non siano stati aboliti come una mostruosità generatrice di perenni incubi notturni, come una imperdonabile fonte di stress per i fragili sistemi psicologici dei nostri allievi. Sistemi resi peraltro sempre più fragili a causa di questa ossessiva e pericolosa ansia degli adulti.
Gli esami di fine ciclo (terza media e quinta superiore) sono, di fatto, uno dei pochi riti di passaggio rimasti nella società occidentale. Potrebbe non essere un caso che essi popolino ancora, anche a distanza di anni o decenni, i sogni di tantissime persone. Dei riti di passaggio essi presentano infatti alcune componenti fondamentali.
Innanzitutto, segnano effettivamente dei passaggi di status: rispettivamente, un passaggio fra ampi cicli di studio e un passaggio dall’età dell’adolescenza a quello della maturità, del possibile lavoro, ecc.
Inoltre, gli esami costituiscono (o dovrebbero costituire) una prova effettiva da superare, che si presenta soprattutto come una sfida emotiva e organizzativa, di crescita umana. Una sfida che richiede organizzazione mentale, la scelta e la messa in campo di strategie di studio e di gestione del tempo, la capacità di affrontare emozioni forti come l’ansia o la frustrazione, l’abilità di costruzione di percorsi multidisciplinari e articolati, di mettere in campo più ampi aspetti di personalità.
Inoltre, tale prova si presenta anche come un rito sociale: con routine, tradizioni, attese, implicazioni emotive ed elementi simbolici che le danno un notevole significato aggiuntivo.
Gli adolescenti, in modo particolare, hanno un grande bisogno di riti di passaggio, ma ormai non ne trovano già codificati sul piano sociale: niente servizio militare e matrimonio o ingresso nel mondo del lavoro sempre più posticipati. Stando così le cose, i riti di passaggio se li trovano loro, anche nelle forme più primitive e tragiche: prove in cui devono dimostrare, ad esempio, sprezzo della paura, mettendo a rischio la loro vita e, più o meno indirettamente, quella altrui. Riti quasi tribali, che segnano una sorta di regressione antropologica.
Più in generale, è l’essere umano in quanto tale ad avere bisogno di sfide complesse, che lo costringano a tirar fuori le sue migliori risorse, a mobilitare la sua stessa enorme complessità cerebrale. E’ invece enormemente penalizzato nella sua crescita se questo gli viene negato, se non lo si aiuta a porsi costantemente in uno stato di tensione al cambiamento.
Soprattutto gli esami di terza media corrono il rischio, in alcuni casi, di trasformarsi in mero atto burocratico o, come si usa dire, talvolta dagli stessi alunni, in farsa. Gli allievi considerano, a posteriori, con un certo divertito disprezzo il fatto che siano stati messi nelle condizioni di copiare sfacciatamente durante le prove scritte o che abbiano potuto portare indisturbati, al colloquio orale, percorsi multidisciplinari presi di sana pianta da internet e senza alcuna indiscreta e fastidiosa domanda posta loro sui percorsi disciplinari.
Ovviamente, l’allievo deve essere messo a suo agio sul piano umano, attraverso un indispensabile approccio empatico e nel solco di una adeguata relazione educativa. Ma una cosa è sostenere i nostri ragazzi, altra cosa è togliere continuamente le castagne dal fuoco per non fare scottare loro le mani. Questo, sì, sembra un modo perfetto per non aiutarli a crescere. Un modo che contribuisce, paradossalmente, a perpetuare quell’irresponsabile giocare col fuoco con le nuove generazioni in cui la nostra società sembra dare il meglio di sé da troppo tempo.
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