Dopo l’ennesima sceneggiata politica agostana, i docenti guardano con adiafora apprensione alla nuova compagine governativa. Molti son contenti. Altrettanti scontenti. Altri ancora non credono più nell’esistenza di Governi amici di Scuola e docenti. Avranno torto? Saranno solo affetti da leopardiano pessimismo cosmico (o depressi perché andranno in quiescenza — a meno di leggi ulteriormente peggiorative — a 68 anni con pensioni da fame)?
In effetti, rivedendo alla moviola la politica scolastica di tutti i Governi degli ultimi 30 anni, salta agli occhi la continuità delle loro scelte. Il che fa pensare che le decisioni siano state prese altrove, prima, e indipendentemente da chi vince le elezioni. Ogni maggioranza, di qualsiasi colore, ha incassato i voti degli insegnanti promettendo l’abolizione dei disastri arrecati alla Scuola dal Governo precedente. Ogni Governo, di qualsiasi fede politica, ha concluso il proprio mandato senza mantenere la promessa, e anzi prendendo provvedimenti persino peggiorativi.
Ma la direzione sostanziale restava sempre la stessa: definanziamento della Scuola; aziendalizzazione; gerarchizzazione; burocratizzazione; aumento dei carichi lavorativi; sottomissione dei Collegi dei Docenti a logiche di concorrenzialità tra scuole-azienda; considerazione dell’alunno non più come cittadino da istruire secondo scienza e coscienza, ma come utente/cliente (il quale, come tale, ha sempre ragione).
A cominciare fu un Governo di Centrosinistra: il primo Governo del socialista Giuliano Amato (quadripartito DC-PSI-PSDI-PLI).
Infatti, dopo i grandi successi ottenuti dalle lotte dei Comitati di Base degli insegnanti alla fine degli anni ‘80, veniva varato il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, che privatizzava il rapporto di lavoro del Pubblico Impiego, facendo entrare forza nel Pubblico Impiego stesso gli insegnanti delle Scuole (ma non i docenti universitari), sebbene la libertà d’insegnamento garantisse alla funzione docente un’autonomia organizzativa e decisionale non riducibili al rango impiegatizio, né all’obbedienza che l’impiegato deve al dirigente di un ufficio privato. Il Preside diveniva “datore di lavoro”. Un vulnus all’articolo 33 comma 1 della Costituzione; ma ben pochi se ne accorsero.
Del resto ancor prima — per impedire che i docenti potessero protestare efficacemente — già nel 1990 era stata varata (da un altro Governo di Centrosinistra, il sesto di Giulio Andreotti) la legge 146 (“legge antisciopero”), che imbrigliava gli scioperi (soprattutto nella Scuola) e vietava de facto il blocco degli scrutini.
Tra l’altro, il Decreto Legislativo 29/1993 aveva anche dichiarato decaduti gli scatti automatici stipendiali biennali, programmando così l’impoverimento progressivo dei salari. Nel 1995 il Contratto Nazionale di Lavoro della Scuola ridusse, infatti, gli scatti stessi a “gradoni” sessennali e settennali, ottenibili solo dopo corsi di “aggiornamento” (norma, quest’ultima, poi abolita).
Nel 1997 (primo Governo Prodi, Centrosinistra) la “Legge Bassanini” stabiliva norme per la rappresentanza sindacale che escludevano dai diritti sindacali tutti i sindacati non “maggiormente” rappresentativi, togliendo loro qualsiasi possibilità di diventarlo.
Contemporaneamente, con l’”autonomia scolastica” (art. 21 della legge 15 marzo 1997, n, 59 e D.P.R. n. 275/1999), il Preside “datore di lavoro” diventava “Dirigente Scolastico” (mentre nelle Università restava Preside elettivo, e tale è tuttora).
Col Governo Berlusconi (estrema Destra), altri bei regalini: la Legge 6 agosto 2008, n. 133 sottrasse alla Scuola — con la “riforma” Gelmini — più di otto miliardi di euro, facendo strage di cattedre, laboratori, ore di lezione, stravolgendo le cattedre di lettere del Liceo Classico (ove diminuì di un quinto il monte ore di italiano nel Ginnasio e dimezzò quello di geografia, accorpandola alla storia).
Il codice disciplinare Brunetta del 2009 moltiplicò i poteri discrezionali del Dirigente Scolastico sugli insegnanti (rendendoli ancor meno inclini a difendere dignità professionale, libertà d’insegnamento e di pensiero).
Tornato al potere il Centrosinistra col Governo Renzi, la Legge 13 luglio 2015, n. 107 (“buona Scuola”) espose ancor più i docenti ad aziendalizzazione e discrezionalità delle decisioni dirigenziali in ogni ambito della vita scolastica (compresa l’erogazione di bonus premiali a piacere del Dirigente).
Infine il primo Governo Conte, con un leghista insediato a Viale Trastevere, ci ha regalato il bell’esame di maturità del quale si sono beati quest’estate moltissimi docenti. Né Legge 107 né “riforma” Gelmini sono state abrogate.
Sbagliano dunque quegli insegnanti che non si fidano più di nessun Governo e di nessuna forza politica? Pecca chi pensa che qualsiasi Governo usi la Scuola come un bancomat da spremere, per il semplice fatto che essa non è difesa da lavoratori coscienti di sé, né sindacalizzati, né combattivi? Errano quanti si son convinti che non esistono Governi amici della Scuola e di chi ci lavora? Prendono una cantonata quei docenti secondo cui l’unica salvezza della categoria (e della Scuola stessa) è la consapevolezza della necessità di organizzarsi per difendersi da soli con ogni mezzo nonviolento a propria disposizione?
Ai posteri (e ai nostri lettori) l’ardua sentenza.
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