Depressione. Rassegnazione. Apatia. Sono gli stati d’animo che affliggono oggi tanti insegnanti. Insegnare in Italia, attualmente, è molto duro. Gli studenti, in massima parte, disprezzano la cultura; arrivano alle Scuole superiori spesso in stato di gravissima impreparazione: al punto che è lecito chiedersi come abbiano fatto ad arrivarci. I pochi allievi bravi e volenterosi sembrano vergognarsi di esserlo. Moltissimi genitori difendono i propri figli spada tratta, specialmente quando sono indifendibili. Molti Dirigenti Scolastici sembrano volersi comportare da padroni delle ferriere anziché da guide di una comunità educante. Lo stipendio è una miseria e una vergogna. E l’opinione che la società ostenta nei confronti dei docenti è quella che si può avere dei falliti e dei perdenti.
Che fare, dunque? Lasciarsi andare alla depressione? Distrarsi il più possibile aspettando la pensione? O non è forse meglio nutrire una speranza attiva e fattiva, che possa contribuire a cambiare questa realtà così deludente? Non è forse il pensiero che cambia la realtà? Non è forse delle idee e delle parole il potere di cambiare il mondo?
Tra pochi giorni sarà Pasqua; poi verrà il 25 aprile. Feste, ambedue, che parlano di nuova vita, di liberazione, di speranza inaspettata dopo la disperazione. Ci sono stati momenti storici peggiori di quello che viviamo, ma tutti si sono prima o poi conclusi, lasciando il posto alla speranza. Perché proprio quando tutto sembra perduto, quando nessuno sembra capirci, dobbiamo resistere. Anche se ci sentiamo soli.
Ci sono tanti motivi, oggi, per non rassegnarsi, per opporsi allo sfascio, per resistere alla violenza, al razzismo, all’idiozia che bussano prepotenti alle porte dell’Occidente per imporsi ancora una volta, come tanti anni fa, come troppo spesso è successo anche nella storia recente.
Tutti abbiamo sentito parlare di quanti e quante hanno saputo resistere, anche a prezzo della propria vita, contro il fascismo, contro l’occupazione nazista, contro le mafie, contro l’ingiustizia. Il loro esempio rischia però di venire offuscato dall’abitudine comune di considerare chi ha resistito come una figura eroica, semileggendaria, e perciò lontana da noi ed inarrivabile. Eppure quelle persone erano come ognuno di noi: donne e uomini in carne ed ossa, che vivevano una vita comune come la nostra, con gli affetti, i desideri, le speranze, le paure che ognuno di noi sperimenta nella propria vita. Persone che hanno saputo scegliere; che hanno saputo dire di no all’ingiustizia, allo spettacolo quotidiano della violenza e della sopraffazione; che hanno preferito vivere in un mondo meno atroce, a costo di soffrire e morire; perché per loro era impossibile vivere chiudendo gli occhi di fronte al dolore e all’ingiustizia.
Persone così, gli antichi Elleni le avrebbero chiamate polìtai (cittadini), contrapponendoli agli idiòtai chiusi nel proprio privato ed insensibili al bene comune, o ai bàrbaroi, sudditi di sovrani assoluti che venivano adorati come dèi.
A queste persone va il nostro pensiero riconoscente, quando meditiamo sulla vita che hanno vissuto, sui sentimenti che provavano, sulle loro sofferenze e sulle loro speranze.
Che cosa pensava Giuseppe Di Vittorio (1892-1957), giovane bracciante dall’età di dieci anni nelle campagne di Cerignola, mentre imparava faticosamente a leggere e a scrivere dopo il duro lavoro sulle terre dei marchesi suoi padroni? Resistette all’ignoranza e alla sudditanza che essa comportava, annotando su un quaderno le parole difficili, e poi studiando da autodidatta, per essere libero attraverso la cultura.
Aveva trent’anni quando vide il fascismo impadronirsi dell’Italia e distruggere tutti quei diritti per cui egli aveva faticosamente lottato fin da quando era dodicenne. Non si perse d’animo, e fu tra i principali esponenti dell’antifascismo e del sindacalismo, nonostante i rischi, le difficoltà, le incomprensioni dei tanti che si erano assuefatti alla dittatura.
Cosa provava Lorenzo Parodi (1926-2011) quando, operaio genovese di 18 anni, dovette darsi alla macchia per sfuggire ai nazisti? Aveva partecipato allo sciopero dell’Ansaldo della primavera del 1943: un anno dopo, per sfuggire alle retate, non scappò, ma entrò nella lotta partigiana, dalla parte dei comunisti internazionalisti e libertari, rifiutando ogni oppressione, inclusa quella staliniana.
Che cosa muoveva Vincenzo Baldazzi (1898-1982) a far politica fin dall’adolescenza, uscendo dal paesino di Genzano sui Colli Albani, fino a conoscere il carcere ed il confino fascista? Quale spinta interiore lo portò a rischiar tutto e a metter in gioco le proprie energie, fino a diventare uno dei capi della Resistenza romana?
Non si sono mai arresi, loro. E hanno cambiato la Storia. Erano una minoranza, in un momento storico buio e senza speranza. Ma sono le minoranze attive che fanno la Storia, non le maggioranze acquiescenti.
Buona Pasqua a tutte le donne e a tutti gli uomini e che insegnano.
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