Appartamento marino. Uno qualsiasi. Leggo e ascolto le voci provenienti dal balcone di rimpetto. Due genitori con tre figli ed una nonna, seduti a pranzo, nascosti da una tenda. Mamma, ho poco sugo sulla pasta … Io voglio altra carne … Ed io ancora una polpetta … Papà, non c’è olio nel pollo … Osservo con ammirazione un certo tipo di famiglie romane, così stranamente numerose. Che coraggio, in una città convulsa come quella … Tali famiglie rivelano un dinamismo metropolitano. I genitori sanno occuparsi dei figli, ponendo attenzione alla loro soggettività, ma col giusto distacco. Le madri parlano poco. Possiedono una personalità da donna americana, fredda, determinata. I padri intervengono al momento giusto, con voce marcata, autorevole. Mentre le mogli non si sovrappongono alla voce dei mariti, nel rispetto della differenza dei ruoli. Ogni tanto interviene anche la nonna. Con competenza, evitando di porsi in conflitto con la coppia genitoriale. Che cosa grande è la famiglia, penso.
Attraverso di essa, un ragazzo entra a far parte del gruppo sociale più vitale. Apprende le competenze primarie riguardo all’autonomia, alla relazione, al modo di considerare le cose … La famiglia. Nulla potrebbe sostituirla. Lo Stato farebbe bene ad appoggiarla, in ogni modo. Rispettando l’unicità inimitabile di ciò che è naturale.
Passeggio sulla riva del mare, in un caldo mattino di luglio. Fra una miriade di persone festose, ubriache di sole. Il nipotino di pochi mesi che porto in braccio, vinto dalla luce abbagliante, si è abbandonato sul mio petto, in un sonno profondo. Sperimento una sorta di simbiosi totale con lui. Qualcosa di sublime. Un bambino ci conquista facendoci capire che si fida di noi. Osservo, però, tanti altri bambini che giocano sulla spiaggia. Sono sospinto, da una nobile esigenza morale, a dilatare la mente ad una paternità universale. Quella che attribuiamo a Dio. E’ così. La famiglia ha il compito di costruire il sentimento di appartenenza primaria, basata sulla fiducia, mentre spetta alla società il merito di farci superare il particolarismo famigliare, aprendoci ad una comunità più ampia. Qualcuno ha scritto che il sentimento dell’appartenenza ad una realtà più estesa, come la società, ed universale, come l’umanità, realizza in pieno l’eticità della persona: “La consapevolezza collettiva è la più alta forma di vita psichica” (Emile Durkheim).
Prendo il fresco in pineta, nell’afa delle prime ore pomeridiane. Adolescenti di diverse età, seduti in gruppi distinti, parlano, ridono, giocano a carte, si abbracciano … Mi raggiungono espressioni volgari ed attributi poco generosi nei riguardi del Padre eterno. Che strani questi giovani. Appena ieri rivelavano innocenza e stupore. Adesso, l’agnello si è trasformato in capro. Ma ciò deve succedere. In qualche modo, lo richiede la crescita. Quando gli occhi si aprono e si scopre il mondo, nella sua nuda, deludente, realtà, allora l’ingenuità fiduciosa dell’infanzia si tramuta in tracotanza ormonale e in ribellione, torbida e dissacratoria. Tuttavia, sotto la maschera trasgressiva, i giovani sembrano celare il bisogno di rinnegare una cultura ipocrita, basata sul compromesso, per ricreare il mondo a modo loro. Anche se, la loro idealità radicale darà vita, inevitabilmente, a nuove forme di ipocrisie e compromessi. Tra vent’anni, questi giovani non ricorderanno nemmeno gli eccessi di questa fase. Tutto sarà rimosso per garantire all’adulto un minimo di autostima. Ma questa è la loro ora, quella di provare e di sbagliare. E’grazie agli errori che gli uomini crescono.
Penso a tutto questo e rimango sereno. Anche loro, chissà perché, si tranquillizzano. Mi torna in mente Osea. Descrivendo la collera di Dio per l’infedeltà del popolo, il profeta gli mette in bocca queste parole: “Non farò del male a questo popolo. Il cuore freme di commozione dentro di me”
Luciano Verdone
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