Una docente, nelle pagine de Il Post, ha scritto un lungo articolo dal sapore tragicomico in merito alla professione dell’insegnante, gli stereotipi riguardo ai tanto bistrattati “tre mesi di ferie estive”, e a ciò che significa davvero insegnare. Ecco lo sfogo.
“Qualcuno si chiede, fuori da ogni polemica, dove finiscono i docenti d’estate, dall’8 giugno in poi, dopo la chiusura delle lezioni per la pausa estiva. Li porta via un furgone o un vattelapesca? Migrano verso i paesi caldi? Si nascondono? Scappano col circo? È la scuola che ci abita, non noi che la abitiamo, e anche per lo stacco estivo nessuno se ne va mai davvero.
Innanzitutto non abbiamo tre mesi di ferie. Fino al 30 giugno le scuole dell’infanzia funzionano normalmente. Gli esami di terza media si chiudono nella quasi totalità sempre il 30 giugno, compresi tutti gli adempimenti amministrativi e burocratici di fine anno. A seguire ci sono commissioni e attività per docenti impegnati in particolari funzioni, che li trattengono a scuola anche fino a metà luglio e più. I colleghi delle superiori hanno i giorni della maturità che si chiudono verso fine luglio e gli esami di recupero calendarizzati a fine agosto.
I docenti sono lavoratori, non missionari, e hanno un normale diritto alle ferie che devono fruire però tassativamente in periodi vincolati dai calendari scolastici regionali per le lezioni, gli scrutini e gli esami di stato. Se avessimo anche ali d’anatra, non potremmo mai volar via per un weekend in bassa stagione o per un viaggio di piacere fuori dai limiti del calendario scolastico. E allora perché le nostre ferie suscitano nell’italiano medio reazioni strane, ammiccanti, velenose, come quel tal cugino di mio padre che, complimentandosi per il mio ingresso in ruolo alcuni anni fa, mi disse che finalmente avrei goduto a sbafo di tre mesi di ferie ‘pagati dalle sue tasse’?
In base alla mia esperienza il docente non va in ferie: il docente agonizza. Le sue non sono proprio vacanze, è una convalescenza. Chi insegna arriva alla fine delle attività scolastiche col fiato alla gola, letteralmente. I mesi di frequenza continuativa sono estenuanti. Anche per gli insegnanti volenterosi e sani occorrono diversi anni di pratica per riuscire a staccare la mente durante l’anno, almeno ogni tanto. Si rischia l’overthinking, il burnout.
In occasione dell’open day, dello spettacolo di fine anno, di quella gita particolare, della preparazione delle Invalsi, dell’arrivo di un nuovo NAI (gli studenti Neo Arrivati in Italia), di una rissa inaspettata l’ultima ora del venerdì… quasi ogni giorno il lavoro si prolunga nel weekend, nella sera, nella notte. E non si è davanti a un pc a inserire dati: si media, ci si accorda, si fa e si disfa, è come lavorare a un processo di pace internazionale senza arrivare mai a un risultato definitivo, soddisfacente. Anche quando si briga fino alle dieci di sera, il giorno dopo il lavoro viene smontato da un numero indefinito di variabili, imprevisti, avvenimenti indecifrabili che ti riportano alla casella di partenza.
Insegnare è un lavoro che spesso assomiglia alla conduzione di una fattoria o alla gestione di un’emergenza alluvioni, più che a un normale lavoro intellettuale. Abbiamo anche responsabilità civili e penali, peraltro.
L’insegnante non è mai solo: nel suo studio (se ce l’ha) sono sempre presenti, a volte anche in simultanea, genitori, alunni, dirigente e colleghi, e qualche volta compaiono anche i pedagogisti Maria Montessori in persona e Jean Piaget che ti guardano storto; il fantasma del ministro di turno ti tira i piedi mentre dormi e ti sventola nel sonno normative di cui hai perso il filo e che ti chiederanno il conto domani, quando dovrai rifare qualcosa da capo. Anche in aula, pur senza telecamere, hai sempre chiaro che tutto ciò che dici e fai è sempre sull’orlo della gogna, e ci rimarrà nei secoli dei secoli: appeso al giudizio di qualunque entità abbia, avrà o abbia avuto a che fare con te.
Ogni giorno, per ore, il docente sta di fronte a provocazioni, obiezioni, si sforza di esercitare empatia, di trovare soluzioni a problemi che non poteva prevedere e che non hanno una procedura di gestione; non c’è una guida da seguire, né ordini a cui obbedire. Si improvvisa sul filo del rasoio, almeno fin quando non ci si sia ancora fatti le ossa sul campo. Abbiamo pianto tutti almeno una volta, sopraffatti dal carico.
Se il docente fosse un architetto, nel suo cantiere gli operai sarebbero sempre in rivolta, mancherebbero cemento e ruspa, e al termine di ogni giorno di attività verrebbe richiesto un resoconto dettagliato di ciò che è stato fatto in merito al progetto che andrebbe scritto di notte, ancora con l’elmetto in testa e la consapevolezza che la casa non sta venendo su come dovrebbe. Se il docente fosse un medico opererebbe gente non sedata, senza bisturi, senza poter fare radiografie e alla presenza di figure di controllo che esigerebbero ogni momento di essere informate sugli sviluppi, anche quando magari il paziente è morto.
L’insegnante non è un baby sitter o un intrattenitore, come molti vorrebbero; non esegue procedure, non lavora in catena di montaggio dove ci si usura espletando operazioni senza vita, senz’anima. Non può smettere di leggere o scrivere o studiare, altrimenti muore o, peggio, diventa un impiegato del potere. Eppure durante l’anno, per come funzionano in Italia i tempi della scuola, leggere, scrivere, studiare per un insegnante è quasi impossibile.
Mentre passeggio in spiaggia e mento ai vicini di ombrellone sul mio lavoro, perché nessuno si azzardi a dire ‘beati voi che fate tre mesi di ferie’, immagino una progettazione che mi durerà fino a giugno dell’anno prossimo. È in agosto che le idee sgorgano dentro di me con la naturalezza della vocazione. Segno qualcosa su un quadernetto, poi lo nascondo in valigia per non vederlo fino a settembre e vado in pineta a far finta di non essere un docente. Ma lo sono. La scuola è ancora ben salda dentro di me, anche se non ci sto dentro”, ha concluso.
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