In ordine alla riforma sulle pensioni, tra le prime misure ipotizzate dal ministro Fornero ci fu il passaggio per tutti dal metodo retributivo a quello contributivo con la pensione calcolata sulla media degli stipendi guadagnati nel corso di tutta la vita e non solo sull’ultima busta paga. Si studiò inoltre come equiparare, in tempi brevi, l’età pensionistica delle donne a quella degli uomini, portandola a 66 anni nel 2018.
E fu teorizzata una stretta agli assegni di anzianità con l’abolizione delle cosiddette “quote”, portando l’anticipo rispetto all’età di vecchiaia solo con 41 anni di contributi per le donne e 42 per gli uomini. Infine, con l’adeguamento progressivo alla durata della vita media, nel 2020 l’Italia “tecnicamente” si pensò che sarebbe il Paese europeo con l’età pensionabile più alta: cioè 66 anni e 11 mesi, che diventeranno 70 anni e 11 mesi nel 2060. (cfr. A. Baccaro e L. Salvia sul Corriere della Sera del 22/7/2012).
Tutti sappiamo e ricordiamo bene che il governo, a tamburo battente e colpi di fiducia, ha convertito nella legge n. 214 del 22/12/2011 il suo decreto n. 201 del 6/12/2011. In 16 giorni. E’ stato come pescare soldi in modo sicuro e immediato, sotto forma di “risparmio” per lo Stato, perché il peso delle pensioni sul PIL nel 2010 era del 16,64% (dato ISTAT) e la spesa per le prestazioni pensionistiche in valori assoluti si aggirava intorno a 250 miliardi di €.
Il premier Monti dice, in tutti gli incontri, che la riforma pensionistica del suo governo è molto apprezzata all’estero. E’ vero. Ma rimangono nella nostra società gravi divari e disparità tra pensionati, per non parlare delle pensioni d’oro e dei privilegi riservati a pochi eletti. L’unico pilastro costruito finora in Italia è quello del rigore. Di crescita se ne vede poca, mentre l’equità e un miraggio lontano.