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Facciamo teatro: Vicentini racconta la storia della recitazione dalle origini al digitale

È senza dubbio un monumento in onore del teatro e in modo particolare del recitare, e dunque un encomio agli attori che hanno fatto grande questa forma d’arte, la cui origine si perde nella notte dei tempi. Quando, come rito propiziatorio, si rappresentavano le cacce abbondanti per garantire la sopravvivenza, ma pure la vittoria sul nemico e dunque i combattimenti con le gesta abbinate all’abilità del corpo nel salto, nella corsa, nella lotta, nell’uso delle armi, così come certi graffiti mostrano nelle grotte preistoriche. 

Ma pure le danze per fecondare la terra e propiziarne i frutti, e che furono presto accompagnate da canti e quindi dal suono di strumenti essenziali come il tamburo e poi via via dal flauto e dalla cetra, quella delle sei corde con cui Dionisio scagliava le sue melodie, in somiglianza dell’arco di Apollo che scoccava frecce mortali. Da qui la Grecia coi suoi teatri e l’invenzione dei personaggi e delle maschere, col coro e lo spazio sacro, dentro cui l’attore recitava il dio, la divinità e le tragedie umane insieme alle bizzarrie comiche. 

È un excursus storico sul teatro e le sue gesta, quello del saggio di Claudio Vicentini, “Storia della recitazione teatrale. Dal mondo antico alla scena digitale”, Marsilio, 712 pp., 38.00 €, e attorno soprattutto agli attori più significativi, quelli che hanno contribuito a rendere immortale lo spettacolo e sacri gli spazi dove, per fare teatro, come Brecht diceva, basta un tappeto per delimitare la scena e un attore per raccontare un evento. Come faceva il novellatore nelle corti medievali, possessore di un vasto repertorio di racconti, per intrattenere il principe e i suoi accoliti, in somiglianza del Novellino e in attesa di Boccaccio con tutta la schiera dei novellatori, Sherazade inclusa. 

Anche queste forme di spettacolo contribuirono, scrive Vicentini, a dare contenuto al teatro moderno, mentre gli attori risultano anime nobili, faceva notare Ingmar Bergman nel Settimo Sigillo, perché sono gli unici, tra coloro che accompagnano il cavaliere, a vedere la Madonna con Bambino e a salvarsi dalla Morte. Attori, avventurieri della parola e del gesto sapiente, che col tempo si evolvono, diventano itineranti dentro carrozzoni con scene e costumi, bambini e mimi, spopolando nelle piazze e persino sui sacrati delle chiese, raccontando agli spettatori, oltre alla vita dei santi, anche quella dei peccatori. 

Recita e recitazione attraverso la gestualità, quella che Amleto cercava di insegnare ai guitti venuti a Elsinore per rappresentare lo psicodramma onde smascherare l’assassino del padre e dunque per segnalare la grande magia evocativa della recita. Da qui la comparsa del mattatore, che è d’invenzione italiana, tanto che Silvio D’Amico, parlando del Grande attore, scriveva che il teatro italiano sarà ricordato per questa sorta di funambulo della parola che usava il copione come semplice canovaccio per restituire al pubblico la sua personale interpretazione del personaggio.

E dunque le compagnie d’arte, quelle in viaggio per il mondo, mentre personalità come Gustavo Modena, Bellotti Bon, Adelaide Ristori, Tommaso Salvini, compresi interpreti dalla dubbia fama, tipo Luigi Anzampàmber, il prototipo del guitto, contribuirono a rendere la recitazione una forma d’arte particolare, sacra, ma anche rozza e popolare, secondo le fascinazioni di Peter Brook, ricordando pure Wilhelm Meister, che cantava a Mignon la terra dove fioriscono i limoni, e Goethe che cercava di portare sulla scena del teatro di Weimar il suo irrappresentabile Faust. 

Pasquale Almirante

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