Guardo attonito e attonito ascolto i giorni ultimi in cui si parla tanto di FASE 2: dove anche la Scuola rientra di buon grado e di petto, ma con conclusive scelte che dovrebbero fare raccapricciare le membra stesse del corpo tutto docente (di ruolo e precario), con annessi e connessi.
Mi riferisco soprattutto alla scelta autoritaria e lontana da ogni sirena di ufficializzare il bando di concorsi che dovrebbero immettere in ruolo circa 60.000 docenti: e scusate se sarà un test a decidere chi ha l’Xfactor dell’insegnante. E tutti quelli che hanno partecipato da tre anni alle selezioni, be! per loro il premio di esserci stati sul palcoscenico della Scuola. A cui seguono gli Esami di Stato: guai se non sono svolti in presenza, quasi a delegittimare una realtà contingente che richiede altre risposte: se siamo in guerra…. .!? A cui poi segue per rendere allegorico il quadro, la DAD con tutto quello che si è detto di essa e del suo valore “contributivo”(?) alla formazione conoscenza apprendimento e competenza.
Dinanzi a tutto questo mi vengono in mente le parole di Daise Diniz: «L’atto dell’educare è stato massacrato, aggredito dall’apatia, dal politically correct e dagli errori prodotti dai media. In questo senso è vero che l’atto dell’educare diventa un soggetto vivente, perché richiede una riflessione costante. Una riflessione su ciò che siamo, e quale società desideriamo per la nostra generazione e per le generazioni future: questa era la questione della paideia greca, dato che nell’antica Grecia si educava alla vita in comunità, in tutte le sue sfumature. È indispensabile chiederci se le nostre pratiche educative ci hanno aiutato a diventare esseri migliori, dal momento che l’opera di insegnamento può essere il motore della costruzione di soggetti etici dotati di responsabilità, solidarietà e carattere per imprimere una nuova direzione alla storia umana.». Già la famosa Paideia: termine che nella antica Grecia denotava il modello pedagogico in vigore ad Atene nel V secolo a.C., riferendosi non solo all’istruzione scolastica dei fanciulli, ma anche al loro sviluppo etico e spirituale al fine di renderli cittadini perfetti e completi, una forma elevata di cultura in grado di guidare il loro inserimento armonico nella società. Che nel trascorrere del tempo, nell’incontro col mondo Occidentale, rappresentata dalla Roma Imperiale, si identificò con quello latino di humanitas.
Cosa ne è restato di questo modello? Di questa filosofia-guida sulla quale e dalla quale trova la sua genesi l’‘Istituto Scolastico (la Scuola)?
Forse la risposta la possiamo trovare nel superamento, o meglio nella frantumazione, se non nell’annientamento, violento volontario della comunità umana, la polis, dove un tempo il mantenimento dei legami politici e la partecipazione alla vita pubblica diventavano il fine supremo della vita, il bene supremo. Per dare nascita, come sostitutivo, alla supremazia del soggetto, che talvolta, nella sua incapacità di fare fronte a ciò che non è controllabile, o meglio controllabile per altrui debolezza o assenza, determina sistemi totalitari, che oggi non hanno più certo motivo di esistere nella moderna Europa, che dietro il volto democratico, nasconde pur sempre la tentazione di autorità: dovremmo tornare a guardare al modello ideale tratto dall’esperienza greca che ha lo scopo di illuminare la metamorfosi della sfera politica moderna, odierna, e così di conseguenza la Scuola.
E allora, cosa resta, cosa fare? Sono interrogativi che accompagnano questo mio ascoltare e guardare attonito. E la risposta che mi viene da dare è semplicemente: esporsi, apparire, riconoscere e farsi riconoscere, cioè conoscere la verità di ciò che si attualizza, ma il prezzo da pagare per pervenire a questa conoscenza è la rinuncia all’azione, all’espressione di interessi immediati e contingenti che, pur nella loro parzialità, costituiscono il mondo reale di cui l’uomo fa parte e da cui derivano il significato e la giustificazione della sua esistenza.
Cioè interrompere il processo cieco della società. Reintegrare il senso antico dell’agire libero, un’aspirazione legata al bisogno di disporre di uno spazio pubblico in cui sperimentare direttamente la possibilità di essere protagonisti e, soprattutto, quella “felicità pubblica” grazia alla quale “ovunque si trovino uomini, donne e bambini, siano essi vecchi o giovani, ricchi o poveri, alti o bassi, saggi o stolti, ignoranti o dotti, ogni individuo appare fortemente spinto dal desiderio di essere visto, ascoltato, considerato, approvato, e rispettato dalla gente intorno a lui e da lui conosciuta” (Hannah Arendt). Non so, forse la mia è l’illusoria visone antica ma sempre nuova della sfera politica, e soprattutto scociale, civile, nella quale, solamente, gli uomini possono sperimentare la pienezza dell’esserci: solo l’uomo, in quanto “spettatore”, può conoscere la verità di ciò che nello spettacolo si attualizza.
Non sono un romantico, ma amo e credo nella forza degli uomini, nel coraggio di rischiare, di non lasciarsi defraudare, soprattutto in questo tempo che più che mai ci offre l’opportunità di essere noi i protagonisti, e scrivere noi le RIFORME che partono dal basso, cioè dalla esperienza in prima linea, da quel sapere che non è teoria, ma vita feriale, la sola in grado di comprendere i drammi le fatiche i sogni di tutti i PRECARI della storia umana.
Mario Santoro
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