Il bando promosso dal Miur per il nuovo finanziamento dei progetti universitari di interesse nazionale, ha suscitato molte polemiche.
La domanda per partecipare al bando deve essere compilata in inglese e a Quotidiano.net il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, si è detto allibito per la scelta: “Abolire l’italiano in una domanda rivolta alla pubblica amministrazione è autolesionista e suicida”.
Marazzini sostiene di essere intervenuto sull’argomento sollecitato da molti colleghi, e chiede al Miur di modificare il bando.
La ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, è intervenuta a Quotidiano.net tramite una lunga lettera.
HO LETTO con grande attenzione le pagine che Quotidiano Nazionale ha dedicato ieri alla questione dell’impiego dell’inglese nel bando per i Progetti di Ricerca d’Interesse Nazionale (PRIN). Con attenzione ma – mi si lasci dire – anche con un qualche disagio. Mi colpisce, infatti, che rispetto a quello che è l’intervento in assoluto più rilevante sulla ricerca di base da vent’anni a questa parte ci si concentri ora su una questione, obiettivamente non rilevantissima, che è relativa alla sola redazione delle domande. Il riferimento è all’articolo 4 comma 2 del bando, quello che prevede che la domanda sia «redatta in lingua inglese». Come è mia abitudine, non mi sottraggo al confronto. Al direttore, all’articolista che ha redatto lo «stelloncino» e al presidente dell’Accademia della Crusca, professor Marazzini, intendo rispondere immediatamente, provando a chiarire il mio pensiero attraverso le colonne del suo giornale. E di questa opportunità la ringrazio.
SOTTOLINEO in primo luogo che l’accusa rivoltaci di «cancellare» l’italiano è semplicemente falsa. Difatti il bando prevede comunque che «a scelta del proponente, può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana». Pertanto, parlare di imposizione di un testo unicamente in lingua inglese non risponde a verità. Per dovere di filologia (il professor Marazzini non potrà che apprezzare) devo poi correggerlo su un’altra sua affermazione. È bensì vero che nel 2012 (obbligatoriamente) e nel 2015 (opzionalmente) la domanda PRIN poteva essere compilata in italiano e in inglese. Ma si dimentica che nel 2014 con il bando SIR (era l’acronimo del PRIN di quell’anno) le domande dovevano essere redatte esclusivamente in inglese. E non mi pare di rammentare levate di scudi. Dopodiché, la cosa che mi spiace constatare dal tono sia dell’intervista sia dell’articolo è che il Ministero rischi di apparire addirittura come una sorta di nemico giurato della lingua italiana. Esagerazioni mediatiche? Forse, ma sottolineo con forza che non è assolutamente così. Anzi: è proprio il contrario. Anche perché – ci tornerò fra poco – il problema della redazione dei progetti di ricerca appartiene a una dimensione funzionale assolutamente diversa e assai marginale rispetto a quella, ben più importante e vasta, del valore intrinseco della nostra lingua. Un valore che va difeso, va consolidato, va promosso. E non è nella redazione delle domande a un progetto che si giocano certo i destini simbolici di una lingua.
Viceversa, è per promuovere convintamente l’italiano che abbiamo istituito una Commissione presieduta dal professor Serianni che si sta occupando della promozione della lingua italiana nei diversi corsi d’istruzione. Con risultati – aggiungo – di grande rilievo. È per promuovere la nostra lingua che abbiamo istituito, con enorme successo, le «Olimpiadi dell’italiano» alle quali partecipano annualmente più di centocinquantamila ragazze e ragazzi. Da cui abbiamo ricavato uno studio d’imminente pubblicazione, fortemente voluto dal mio Ministero, sullo stato di salute dell’italiano nelle giovani generazioni. È per rafforzare le competenze della nostra bella lingua che abbiamo inserito anche al V anno della scuola secondaria un test Invalsi sulle cognizioni dell’italiano.
INOLTRE , a costo di essere stucchevole, vorrei anche ricordare che abbiamo promosso (e finanziato) un progetto triennale con la «Dante Alighieri» per l’internazionalizzazione della nostra lingua. E alle attività progettuali della «Dante» il Ministero partecipa in prima persona con un proprio delegato. Così come, in pieno accordo con il MAECI e con il MIBACT, facciamo parte integrante delle iniziative per la promozione della cultura e della lingua italiane all’estero, ivi inclusi gli «Stati Generali della Lingua Italiana» che ogni anno ci vedono fra i promotori più assidui e più convinti. Infine, la «Buona Scuola». Nella delega per la cultura umanistica (art. 3 c. 1 lett. d) non è per caso che abbiamo aggiunto un quarto «tema linguistico-creativo» dedicato (cito) «alla conoscenza e alla pratica della scrittura creativa, della poesia e di altre forme simili di espressione, della lingua italiana, delle sue radici classiche, dei linguaggi e dei dialetti parlati in Italia». Alla luce di questo enorme impegno del Ministero, dunque, respingo fermamente qualunque accusa di deminutio dell’italiano.
Quanto, infine, alla vicenda del PRIN vorrei ricordare che la redazione obbligatoria delle domande in lingua inglese appare funzionalmente indispensabile. Non devo essere certo io a dover ricordare che le lingue si definiscono per quelli che sono anche i loro spettri d’impiego. E l’inglese è, semplicemente, la lingua veicolare della comunicazione internazionale fra ricercatrici e ricercatori. Per conseguenza, visto che nella seconda fase della valutazione del bando PRIN avremo bisogno di migliaia di valutatori attinti anche a banche-dati estere, seguendo in questo le migliori prassi internazionali, la redazione dei progetti non può fare a meno del veicolo comunicativo dell’inglese. Tanto più che la maggior parte dei ricercatori italiani, essendo coinvolti nel bando, non potrà essere selezionata per le procedure valutative per ovvia incompatibilità.
L’INGLESE è, dunque, necessario. È necessario, insisto, in questo specifico caso. La stessa lingua che, peraltro, ricercatrici e ricercatori sono abituati a utilizzare quando fanno domanda per partecipare a un qualsiasi bando competitivo europeo. Per conseguenza non ci trovo nulla di scandaloso. Non stiamo chiedendo di scrivere un componimento su Dante in inglese. Stiamo chiedendo al mondo della ricerca di utilizzare per un bando con ampi «sconfinamenti» internazionali, la lingua funzionalmente più idonea. Che è l’inglese, ribadisco. E davvero – mi si perdoni la punta polemica – trovo bizzarro affermare che far redigere la domanda in inglese a un ricercatore significhi «costringere… a un esercizio linguistico che poi non trova riscontro nell’attività professionale giornaliera”.
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