“Beato a voi compare Alfio che siete allegro così!”, dice Santuzza al più famoso carrettiere della letteratura universale e del quale Giovanni Verga, nella sua novella, aveva descritto il continuo peregrinare per il mondo col suo carro che lo aveva portato a conoscere tanta gente e tanti luoghi.
E compare Alfio aveva risposto a Santa che è “un bel mestiere fare il carrettiere, e andar di qua e di là”, ma prima di sapere dell’ingiuria tradimentosa della moglie, Lola, col compare Turiddu, perchè dopo i noti fatti di sangue avrà capito ch’era meglio fare il villano o l’artigiano.
Infatti, se per un verso il nobile lavoro di carrettiere non gli faceva sporcare le mani o piegare la schiena sul beccheggio pesante della zappa, come ai contadini, dall’altro quel mestiere lo portava a stare molto tempo fuori di casa e dal letto coniugale, lasciando così sguarnite le non mai acclarate difese della moglie.
Ma questa particolare condizione di mancanza di guardiania nei confronti dei cosiddetti “cani di paese”, come compare Turiddu, non riguardava solo i carrettieri, anche i contadini erano soggetti all’ingiuria delle corna a causa del costante assedio alla virtù delle consorti da parte dei mastri artigiani che, non andando in campagna a lavorare o fuori, erano come dei canazzi, sempre in giro per il paese.
Ed era questo sospetto così acceso nei paesini dell’entroterra siciliano che in alcuni di essi si erano pure formati dei partiti contrapposti: quelli dei massari, i contadini proprietari di terreni, e quello dei mastri, gli artigiani e i piccoli negozianti, che proprio per la loro condizione stavano sempre “piedi piedi” a occhieggiare, sventoleggiare e intrattenersi con le comari, contrariamente ai villani, sempre nei campi, o ai carrettieri, in giro a portare materiali di ogni sorta e genere.
Col tempo, e con l’incalzare della storia, i due schieramenti diventarono persino partiti politici: fascisti (i mastri) e socialisti (tutti gli altri) e poi comunisti (i piccoli contadini con poca terra e i carrettieri) e democristiani (i grossi proprietari e i mastri).
I carrettieri però erano quelli col fianco più scoperto e non solo perchè non avevano proprietà da curare, la famosa roba di mastro don Gesualdo, ma anche perchè non raramente capitava di mancare qualche giorno dalle case le quali, ai tempi cui ci riferiamo, non godevano neanche della illuminazione elettrica pubblica, né interna né esterna, cosicchè nelle lunghe serate d’inverno i canazzi di paese non proiettavano nemmeno l’ombra sui cantoni delle strade, né sugli usci appena accostati delle giovani signore più spregiudicate.
A compare Alfio quindi le corna gli toccavano per una sorta di congiura storica e sociale, più che per disgrazia letteraria, benché la sua arte fosse alquanto richiesta fino ai primissimi degli anni cinquanta del Novecento, quando la “lapa” sconfisse definitivamente e con subdola efficacia il carro e il cavallo, i finimenti e il pennacchio con la zotta: la mitica frusta per aizzare la bestia a tirare il carretto che in Germania abbiamo visto tirare, durante la guerra dei Trent’anni, dalla sola simpatica madre Coraggio o Courasche di Grimmelshausen: ma questa è un’altra storia.
I nostri carrettieri con questo mezzo ci vivevano e portavano avanti la famiglia, ma come sempre è capitato, da quando il diavolo inventò i soldi, la concorrenza fra di loro era assai accesa anche perchè dei loro servizi molti potevano farne a meno, considerando che tanti contadini possedevano un carretto, insieme col mulo o il cavallo al quale si legava.
Il loro compito allora era soprattutto volto a recarsi fuori dalla stretta cerchia dell’abitato e raggiungere i paesi vicini per prendere o lasciare mercanzie per conto dei pochi negozi del paese, o di recarsi nelle più vicine stazioni ferroviarie per eventuali spedizioni.
Non raramente capitava pure di accompagnare intere famiglie nelle città per una consulta medica, per l’acquisto di abiti, in vista di avvenimenti importanti, o per prodotti particolari o per visitare le fiere di bestiame o di prodotti agricoli che periodicamente si svolgevano in località abbastanza note.
Ma erano le fiere le mete più frequentate da questi primitivi corrieri da dove portavano qualche novità su richiesta oppure su loro particolare intuizione. Qualcuno di loro infatti a casa aveva una sorta di emporio composto di sarde salate, aringhe, baccalà, olive ma pure finimenti, zappe, asce, roncole e così via.
E siccome vivevano di commercio, come ogni buon mercante, avevano pure la necessità di pubblicizzare il carretto con l’immancabile cavallo o mulo, a seconda della disponibilità finanziaria del carrettiere medesimo.
Se dunque per un verso spesso fra di loro facevano gare di resistenza per dimostrare la valentia della propria soma, caricando il carro all’inverosimile, anche con pietre, e poi facendo affrontare salite ripidissime alla povera bestia che doveva trainarlo a colpi di frusta, dall’altro contrassegnavano quella sorta di vettura con i più suggestivi, colorati, accattivanti disegni, simboli e reclami (oggi li chiameremmo spot pubblicitari), sia per contrastare la concorrenza e sia per personalizzare il loro mezzo.
E allora qualcuno adottava immagini sacre, altri fatti narrati dai cantastorie, altri personaggi del mito locale, benchè la maggior parte preferisse le storie dei reali di Francia, quelli di Rizzieri e di Orlando e Rinaldo, compreso re Carlo e pure qualche scena tratta dai “Mafiosi della vicaria”, un drammone dell’Ottocento ormai noto a pochissimi. Un modo insomma per ornarlo e renderlo esteticamente migliore e più appariscente rispetto a quello degli altri, cosicché diventa pure, il carretto, da mezzo da lavoro, a un insieme di pannelli variopinti vaganti, “trittici” disegnati sulle sponde, talvolta pure da gustare e leggere con impegno: una specie di arte in movimento, itinerante, insomma sulle orme delle due grandi ruote.