Dopo un mese esatto dal giorno in cui, in Italia, sono state assunte le prime misure di contenimento dell’epidemia, e dopo le settimane della “grande paura” in cui sembrava che la diffusione del virus fosse diventata esponenziale ed inarrestabile, pur rimanendo nel più rigido auto-isolamento e nella disciplinata osservanza delle norme di comportamento emanate dalle autorità su suggerimento degli organi tecnico-scientifici, molti di noi hanno cominciato a formarsi una idea sempre più approssimata e precisa sulle caratteristiche di questo nemico invisibile, ma maledettamente concreto ed instancabilmente operante.
Un’idea che, sebbene non abbia pretese di evidenza scientifica (non siamo epidemiologi, anzi confessiamo la nostra totale ignoranza e assoluta mancanza di conoscenze nel campo bio-medico e anatomo-patologico), vuole rappresentare, tuttavia, un abbozzo di fenomenologia del coronavirus.
Con la parola fenomenologia (termine usato e abusato dai filosofi) si intende, di solito, l’insieme delle manifestazioni attraverso le quali un determinato oggetto può essere percepito e conosciuto dai soggetti conoscenti, cioè dagli esseri umani. In questo caso ci troviamo di fronte non ad un oggetto inanimato, inerte, bensì ad un qualcosa di ben vivo, che nasce, si sviluppa, si diffonde, si moltiplica con una velocità impressionante, senza fermarsi davanti a confini, frontiere e barriere di qualsiasi tipo. E’ un’entità (una sostanza) che, proprio sulla base delle sue manifestazioni (o modi) e tragiche conseguenze, può essere descritto e rappresentato con i seguenti attributi (sostanza, attributi, modi: mi si perdoni l’impiego di una terminologia che ricorda il grande Baruch Spinoza):
- Naturale: il coronavirus non è un castigo di Dio, ma una forza della Natura, nasce in essa e si riproduce e si diffonde attraverso la domiciliazione in enti naturali viventi, provocando nelle vie respiratorie di quest’ultimi gravi patologie e a volte la morte;
- Sociale: nel senso che il coronavirus non ama affatto gli individui isolati, emarginati e privi di contatti con altri individui; tutt’altro: esso adora gli assembramenti, le feste, i luoghi aperti o chiusi dove si radunano moltitudini di individui; ama le strette di mano, gli abbracci, le carezze, la vicinanza, la prossimità, la promiscuità. Si trova benissimo nei pubs fumosi e puteolenti, così come nelle assordanti discoteche, sulle affollatissime navi da crociera, nelle transumanti movide notturne delle metropoli, insomma dovunque ci si possa ritrovare nel maggior numero possibile;
- Umanitario: questo virus, tra le innumerevoli specie viventi che popolano il pianeta Terra, è andato a scegliere, come residenza, l’uomo, vale a dire il “dominus”, colui che ha trasformato (e devastato) il pianeta secondo la sua volontà e le sue esigenze di edonistico e irrefrenabile consumo di risorse energetiche, di beni alimentari e voluttuari ecc. Dovremmo quasi essergli grati di questa sua preferenza, è evidente che, nell’individuazione dell’uomo come specie da usare come strumento di riproduzione, vi è quasi una sorta di riconoscimento del predominio umano sulle altre specie e sulla Natura; ma vi è anche una sorta di sfida a duello, quasi volesse dimostrare che, almeno temporaneamente, l’uomo ha trovato qualcuno più forte e, soprattutto, più letale;
- Democratico e interclassista: nel senso più schietto di questi due termini. Il coronavirus non ama le differenze di classe sociale, si abbatte con la stessa ecumenica violenza sul ricco e sul povero, sul capitalista e sull’operaio, sui maschi e sulle femmine, sui vecchi e sui giovani, sui governanti e sui governati. Colpisce coloro che lo sottovalutano e lo irridono (il premier britannico Johnson ne sa qualcosa), così come coloro che ne hanno paura. Il coronavirus ha strappato, in pochissimo tempo, dal volto degli uomini le maschere delle differenze sociali e di ruolo, svelando la nuda, fragile vulnerabilità ed esposizione al nulla che costituisce la vera, autentica essenza umana;
- Interetnica e cosmopolitica: in un’epoca in cui si riscoprono e si affermano, in maniera insensata, populismi, nazionalismi, regionalismi e razzismi; nella quale si guarda con diffidenza e odio lo straniero, individuato come causa dell’insicurezza e della crisi economica e occupazionale; nella quale si vogliono costruire muri e barriere e si ritorna a parlare della necessità di “difendere i sacri confini della patria”; ebbene, il coronavirus non conosce frontiere, barriere, muri, distanze geografiche ed etniche; il coronavirus si distende su tutti i continenti e stringe in un solo abbraccio (a volte mortale) tutti i popoli della Terra: cinesi, italiani, spagnoli, britannici, francesi, statunitensi, sudamericani, africani, australiani, ecc. Dovunque vi siano insediamenti umani, il coronavirus è lì, presente e agente. Ebbene, di fronte a questo cosmopolitismo del virus, vi è ancora qualcuno che continua a pensare che la guerra possa essere combattuta chiudendo le frontiere, rompendo e sciogliendo le Istituzioni sovranazionali, sabotando le proposte di nuovi strumenti europei di contenimento economico e finanziario, strumenti necessari per salvare e rilanciare l’economia dei paesi maggiormente colpiti dalla pandemia; vi è ancora qualcuno che pensa che “ci si possa salvare da soli”.
Se c’è invece un insegnamento da trarre da tutta questa tremenda tempesta, esso consiste nell’esatto contrario della scelta solitaria e/o nazionalistica: l’umanità (perché è l’intera specie umana in pericolo, non questo o quel popolo) si può salvare soltanto se riscopre ciò che ci rende uomini, vale a dire membri di un’unica comunità mondiale, possessori della medesima essenza, costituita da enormi capacità e possibilità, ma anche da fragilità, debolezze, insicurezze, bisogni di solidarietà e di aiuto reciproco. Soltanto se mettiamo insieme le nostre risorse (tecniche, scientifiche, comunicative, economiche, finanziarie, ma soprattutto umanitarie), potremo salvarci e, forse, dare inizio ad una nuova epoca della storia, un’epoca che metta al centro l’uomo e i suoi bisogni, così come la necessità di ricostruire un nuovo e diverso ed equilibrato rapporto con la Natura.
Francesco Sirleto