Anche nella vita della scuola ci sono questioni di forma, essenziali per garantire equilibrio e responsabilità, e questioni di sostanza.
Quelle che cioè segnano la vita reale, che dicono non solo il metodo ed il merito, ma anche la qualità, in ragione delle finalità, del nostro servizio pubblico.
Perché la scuola è, de iure e de facto, servizio pubblico. Non una forma di autoreferenza, ma modalità di risposta ai bisogni e alle domande dei cittadini.
Riguardo, dunque, al tema dei permessi, compresa la possibilità di concessione di giorni di ferie durante l’attività didattica ordinaria, unito al tema delle autocertificazioni, vi sono anzitutto le norme contrattuali, ma, direi prima ancora, c’è la vita reale. C’è, lo possiamo dire, il buon senso.
Il nostro giornale ha già, con un pezzo ad hoc, chiarito i termini della questione, compreso il fatto che le richieste vanno motivate, dando poi la possibilità al DS di verificarne la veridicità.
Perché resta sempre vero che anzitutto sono permessi retribuiti, eppoi che va salvaguardata la funzionalità ed il servizio che la scuola è chiamata a garantire.
Andando al dunque, provo a dire come mi comporto come DS in due grandi scuole superiori, quindi con oltre 300 docenti.
Chi avesse necessità, può fare domanda secondo un modulo precostituito, previsto nella “istruzione operativa”, gestito poi dall’ufficio personale.
Presentare una richiesta significa presentare una domanda. La quale non è una semplice comunicazione, ma una richiesta.
Se c’è dunque una domanda questo vuol dire che si richiede una risposta, e le risposte possono essere due, positiva o negativa.
In realtà, cercando di avere un rapporto corretto e trasparente con tutti, senza cioè “amici degli amici”, tutti nelle mie due scuole sanno che la correttezza è vangelo. Per cui, se davvero vi è la necessità, non ci sono problemi, fatte salve le verifiche di compatibilità con l’organizzazione e la vigilanza.
Se ci sono le stesse poche persone che hanno, chiamiamola così, la tendenza a presentare ripetute richieste, senza una chiara motivazione, non è la prima volta che mi permetto una risposta negativa, motivandola, appunto, con la nostra responsabilità di garantire il più possibile un servizio continuativo.
Poi, ogni tanto, provo a chiarire che un diritto non necessariamente è un dovere: penso qui ai tre canonici giorni della 104, oppure al giorno per la donazione del sangue.
In tanti anni, ad esempio, di donazione non ho mai preso il giorno, perché, grazie a Dio, sto bene. Per cui mi sento sempre sentito vincolato a continuare il mio lavoro senza prendermi il giorno. Un diritto, cioè, che non è detto che debba essere un dovere.
Ma vedo che questa riflessione trovo sia diffusa nella scuola, perché tra i docenti ed il personale è presente, salvo casi rari, questa comune responsabilità.
Altri casi, ad esempio sulle 150 ore, più per il personale ata che per i docenti, i quali hanno margini di governo del proprio tempo superiori, rispetto alle canoniche 36 ore settimanali degli ata.
Qui ho visto che questo senso della responsabilità, solo per pochi casi di ata, non sempre c’è. Perchè quel diritto allo studio in realtà viene visto solo come opportunità strumentale. Parlo di pochi casi, ma di casi purtroppo che hanno messo in difficoltà i propri colleghi d’ufficio.
Resta sempre la questione di fondo: dipende dalle persone, più che dalle norme.
Cioè diritti riconosciuti che sono di ausilio, ma che rischiano, se male interpretati, di diventare come di ostacolo alla corretta gestione del tempo e delle responsabilità comuni.
Il problema, come sempre, è la verifica. Magari con organi terzi, perché gli stessi diritti siano davvero rispettosi dei bisogni e desideri di ciascuno, ma rispettosi, nel contempo, del proprio servizio pubblico alla comunità.
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