E’ andata in onda su Raiuno, e con largo successo, una serie che si è valsa di un efficace protagonista: il prestante e dinamico Alessandro Gassmann. Il suo però non è “Un professore” come vorrebbe il titolo ma “Il professore”: subito definito da una critica benevola “affascinante e fuori dagli schemi” è al contrario un arcinoto stereotipo che oramai da decenni imperversa alternativo, contestatario, fintamente stazzonato, polemico e saccente.
Al suo arrivo gli viene assegnata una classe dove c’è anche il figlio e in poche parole conosciamo il suo orientamento. La preside: “Quella di Simone non è una classe facile: Manuel, il ragazzo con cui litigava prima, è ripetente e, purtroppo, sta nella tua sezione” E lui: “Perché “purtroppo”? Perché? Quelli bravi ce la fanno da soli, noi siamo qui per quelli come Manuel”. Dietro a una semplice battuta c’è tutta una linea pedagogica che da troppo tempo condiziona la scuola, non solo italiana purtroppo.
L’atteggiamento scenograficamente provocatorio del prof. Balestra segue in realtà una linea vecchia, anzi vecchissima: il concetto secondo cui la meritocrazia non è democratica e allora i ragazzi bravi vengono relegati sullo sfondo, ove possibile degradati a “secchioni”. Importa assai poco della povera filosofia, la materia che il professore insegna, attualizzata allo stremo e ridotta a semplice spunto per la riflessione, attribuendo ai poveri sedicenni capacità e strumenti critici che a quell’età nessuno possiede.
A una didattica sommaria , che una volta i noiosi parrucconi nozionisti chiamavano “infarinatura” si danno oggi i più appropriati termini di “nuclei essenziali”, “nodi fondanti” base indiscussa della nuova scuola basata sull’abusato, onnicomprensivo, fascinoso nonchè vago e indefinito nome di inclusione: termine che cela in realtà una tra le più rovinose politiche didattico-educative che la scuola abbia mai conosciuto. Basata su una vorticosa spirale discendente verso una semplificazione che non conosce limiti, la cosiddetta inclusione è quanto di più escludente ci possa essere. Esclude i migliori, i volonterosi, gli studiosi e lo fa con tale radicalismo da stigmatizzarne anche la definizione: si prova un certo imbarazzo a parlare di “migliori”, non sarebbe meglio definirli “più fortunati”?
Il radicalismo è figlio di una ben precisa linea culturale. Quella che vuole la pedagogia e la psicologia, un tempo figlie minori della filosofia, assurgere a protagoniste della vita scolastica. Che cosa fa il bel prof. Balestra se non agitarsi di qui, di là, di su e di giù per risolvere i problemi dei suoi alunni? Rivelando quella che è oramai la funzione del docente italiano: supplire alla famiglia. Non a caso per tutte puntate i genitori sono quasi inesistenti, e quei pochi pateticamente fallimentari o irrealmente severissimi. Il padre, in realtà, e lui. L’invadente prof giunge ad andare a trovare un’alunna in forte crisi per consolarla. La casa è deserta: dove sono papà e mamma? Non ci sono perché c’è lui.
C’è una scuola assistenziale che educa, informa, redarguisce (blandamente), sostiene, consola, ascolta, aiuta, e con tutto questo daffare chi ha il tempo per insegnare? Sorge spontanea una domanda: tra i quattro milioni di telespettatori italiani che hanno seguito fedelmente la fiction c’è qualcuno che si è accorto della potente azione denigratorio-demolitoria contro la scuola attuata dagli autori e dal bravo regista D’Alatri? Tra lo squallore di muri scrostati in cui non si vede l’ombra di un computer, di una lavagna elettronica che oramai da tempo nelle aule ci sono eccome, fanno da coro al brillante protagonista i poveri colleghi ottusi, obesi, decisamente sfigati. Tra tutti campeggia un arcaico professore (non a caso di latino) e per dare pregnanza al meschino si chiama Paolo Bessegato, uno tra i più importanti attori di teatro del nostro Paese.
Il docente, ovviamente, non manca mai di far calare il proprio disprezzo sui ragazzi “Una massa di capre: vorresti sperare qualcosa da questo gregge?” A questo omarino si fanno compiere i gesti più miseri, come l’interrogazione a sorpresa: entra in classe e fa una domanda a ciascuno schioccando le dita a metronomo. Tap, tap, “Avanti, rispondi” tap, tap “non la sai?” E dà tre a tutta la classe: “Per farvi capire che, davanti al Potere, belli miei, la vostra vita futura non sarà una passeggiata”. Ha importanza il fatto di essere lontani anni luce dalla realtà in cui un professore che si permetta un simile arbitrio è destinato a vedersi assalito da legioni di genitori indignati? Il prof. Balestra questo invece lo sa bene e fa di tutto per piacere ai suoi ragazzi: venuto fortunosamente in possesso della verifica del detestato collega che si farà l’indomani, la passa a tutta la classe.
Questo è uno tra i punti più bassi toccati dalla sceneggiatura ma c’è qualcuno che se ne accorge e soprattutto a chi importa? Messi di fronte a queste evidenze gli autori farebbero spallucce avendo a disposizione un bell’avverbio: oramai. Oramai, tutti copiano, oramai studiano solo i secchioni, oramai le guerre puniche sono demodé, oramai non si deve più fare lo scritto di italiano, oramai quelli che leggono un testo e lo capiscono sono sempre meno. Oramai siamo qui “per quelli come Manuel perché i bravi ce la fanno da soli”. In questo infinito Sessantotto che vive la scuola e di cui il nostro eroe è fiero protagonista, i responsabili della sua evidente, rovinosa débacle sono sempre altrove. Al recente concorso in magistratura su 1532 candidati solo 88 hanno passato lo scritto a causa della dilagante incapacità dei concorrenti di scrivere in un italiano corretto. Di chi la colpa? Sicuramente non del bel prof. Balestra: lui, l’amicone dei ragazzi, non ha più tempo per istruirli.
Patrizia Esposito
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