«Per Sofia la filosofia era terribilmente eccitante perché riusciva a seguire tutto con la propria testa, senza esser costretta a ricordare quello che aveva imparato a scuola. Giunse così alla conclusione che in realtà la filosofia non è qualcosa che si può imparare: si poteva invece imparare a pensare filosoficamente» (J. Gaarder, Il mondo di Sofia).
Ne era convinto Matthew Lipman (1923-2010), professore di logica alla Columbia University di New York. Certo che la capacità di pensiero astratto esista nell’essere umano fin dall’infanzia, egli fondò nei primi anni ‘70 la Philosophy for Children, tecnica didattica (adottata dall’UNESCO come eccellenza pedagogica) per sollecitare nei giovanissimi l’esercizio riflessivo e critico del pensiero attraverso il ragionamento filosofico.
Ebbene, dato che negli Stati Uniti la filosofia non è materia curricolare nemmeno nelle scuole superiori, la sperimentazione di Lipman fu veramente rivoluzionaria: in un Paese dove il pensiero filosofico non è tuttora ritenuto pedagogicamente rilevante, lo studioso inaugurò una prassi didattica mediante la quale i bambini erano invitati a porsi domande riflettendo liberamente su temi filosofici profondi, vicini al loro vissuto quotidiano; per comprendere che le domande sono più importanti delle risposte; e per scoprire successivamente che le medesime domande se le sono poste per 2.500 anni i filosofi, le cui risposte sono un patrimonio del pensiero umano, un tesoro prezioso cui attingere per ragionare, per imparare a rispettare il pensiero altrui e per porsi nuove domande, in un processo perpetuo di conoscenza e di progresso civile.
L’idea di Lipman si pone nel solco del pensiero pedagogico di John Dewey (1859-1952), pedagogista e filosofo statunitense che ebbe, tra gli altri meriti, quello di pronunciarsi favore di Sacco e Vanzetti e del voto alle donne. Dewey era convinto che l’educazione deve partire dall’esperienza quotidiana. Pertanto, come s’impara la musica suonando, e non solo studiando teoria musicale, così s’impara a ragionare filosofando in comunità.
E in Italia? Com’è noto, la nostra tradizione didattica attribuisce (giustamente) un ruolo fondamentale alle conoscenze, sostrato fondamentale per inserire le esperienze nel tessuto di una cultura plurimillenaria, che lo stesso Antonio Gramsci considerava imprescindibile per la formazione e l’emancipazione dell’individuo dai condizionamenti sociali contingenti.
A Roma la Philosophy for Children (P4C), introdotta nella Penisola dagli anni ‘90, viene sperimentata in “sessioni filosofiche” presso alcune scuole elementari e medie, con capofila l’I. C. “Borgoncini Duca”. Le classi diventano “comunità”, nelle quali il docente è un mediatore, che stimola e guida il dibattito fra i bambini, spingendoli a porsi domande e scomparendo dal dibattito stesso man mano che questo diventa spontaneo. Qualcosa di simile alla pedagogia libertaria che Alexander Neill dipinge ne I ragazzi felici di Summerhill. Un’educazione al dialogo e alla democrazia.
“Il risultato importante di questa tecnica didattica”, ha dichiarato a La Tecnica della Scuola il maestro Salvatore Conforti, che sperimenta da anni le sessioni filosofiche al Borgoncini Duca, “è la trasformazione che avviene nel pensiero degli alunni, e che mette in gioco tutto quanto oggi il pensiero unico (frutto anche delle pur osannate nuove tecnologie e delle poche multinazionali che le gestiscono) cerca di cancellare.
Il nostro è un tentativo di portare gli alunni a pensare a tutto ciò cui oggi non pensano; conducendoli nello stesso tempo per mano al rispetto verso il pensiero altrui. È un processo maieutico. I bambini parlano di ciò che li interessa, pertanto partecipano come noi adulti non immagineremmo neppure. Personalmente sono rammaricato solo di non aver scoperto prima la P4C. Tutte le scuole cui la stiamo proponendo aderiscono con entusiasmo. Si parte da un “testo pretesto”. I ragazzi, leggendolo a rotazione, elaborano domande riguardanti temi che hanno trovato all’interno del testo. Dato che le domande sono poste da loro, esse riguardano direttamente il loro vissuto. Dalle domande nasce quindi una discussione di tipo socratico, dalla quale l’insegnante deve tendere a scomparire, così da consentire ai bambini di parlar liberamente, senza aver paura dei docenti”.
Poniamoci però un problema: questa prassi pedagogica — utilissima in un Paese come gli USA dove la filosofia è studiata solo da una danarosa minoranza nelle Università — non sarà fuori luogo in Italia, dove la tradizione degli studi filosofici è ben altra cosa?
Certamente non si può confondere la discussione libera con il vero filosofare, che nasce dalla conoscenza approfondita di temi e di opere che hanno costituito il fondamento stesso della civiltà umana. Infatti soltanto nei trienni liceali possiamo dire che i ragazzi prendano contatto con la Filosofia e ne comprendano le basi.
Che cosa ne pensano i nostri lettori?
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