Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha stabilito che se un docente apostrofa un alunno con epiteti come deficiente o fetente significa solamente maltrattare un ragazzo. Nulla dunque a che fare con una presunta strategia educativa né con l’intento punitivo per correggere.
In altri termini, offendere ripetutamente un alunno, davanti ai compagni e con epiteti denigratori, per i giudici significa macchiarsi di maltrattamenti, una sorta di bullismo autoritario contro un minorenne.
Il Messaggero, che pubblica la notizia della sentenza, chiarisce pure che il reato è tanto più odioso in quanto si abbatte, da parte di un maggiorenne, sulla pelle di un ragazzo di appena 12 anni che non ha strumenti caratteriali e forza tale da potere contrastare la voce grossa del suo insegnante.
Disagio, umiliazione, vergogna, paura e per tali motivi, secondo la Corte Suprema, si entra nel reato di maltrattamento. Nulla a che vedere dunque con la severità di un docente e dei suoi metodi correttivi: quando si arriva all’ingiuria e alla mortificazione, secondo i giudici, vuol dire che l’atteggiamento del professore non ha alcuna valenza educativa.
Non solo, un simile atteggiamento è anche più grave del reato di abuso di mezzi correttivi per i quali, in base all’articolo 571 del Codice penale, è previsto un periodo di reclusione di sei mesi.
Nel caso specifico la Corte ha stabilito di dovere applicare il reato di maltrattamento che, in base all’articolo 572, prevede: Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
[La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici.]
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.